venerdì 18 marzo 2011

Dante ed i Templari (Purg. XX, 91-96)


Venendo incontro alle curiosità sorte in alcuni dei miei allievi, interessati al medioevo ed incuriositi dalla turbinosa storia dei cavalieri templari, proviamo ad offrire alcuni spunti di riflessione ‘fuori dal coro’ sugli echi della vicenda presenti nel poema.
All’interno della seconda cantica del suo straordinario poema Dante inserisce l’unico riferimento esplicito alla famosa vicenda della persecuzione dell’Ordine dei Templari. Come è noto, i membri dell’Ordine dei Cavalieri Templari, allora il più potente tra gli ordini cavallereschi della Chiesa, vennero accusati nel 1307 di eresia dal re di Francia Filippo il Bello, che aspirava ad impossessarsi delle loro ingenti ricchezze. Grazie a testimonianze inventate ed a confessioni estorte spesso sotto tortura, il re fece arrestare e mandò a morte molti componenti dell’ordine con l’avallo silenzioso del Papa di allora, Clemente V, che solo nel 1312 al Concilio di Vienna emanò la condanna definitiva per eresia e il decreto di soppressione dell’Ordine, disponendo anche che le ricchezze fino ad allora appartenute ai Templari fossero destinate agli Ospitalieri, loro rivali.
Dante aveva dedicato alla figura di Clemente V parole non certo benevole già nella prima Cantica (Inferno, XIX, 81-87), allorché lo aveva definito pastor senza legge ed accusato di essere stato, sostanzialmente, un burattino nelle mani del Re di Francia.
Ora, nel Purgatorio, Dante ritorna sull’argomento con parole altrettanto ferme, che si prestano ad interessanti considerazioni:

Veggio il novo Pilato si crudele,
che ciò nol sazia, ma senza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
O Signor mio, quando sarò io lieto
a veder la tua vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel segreto?

Dante lamenta che un nuovo Pilato vuole assaltare il Tempio, senza averne alcun diritto: appare chiaro che il nuovo Pilato è Filippo il Bello, il quale, senza alcuna autorità, vuole distruggere l’Ordine dei Templari. Nel 1307 il re agisce senza decreto, in quanto una vera e propria condanna per eresia nei confronti dei Templari arriverà solo, come detto, nel 1312, dunque il suo è un vero e proprio abuso.
L’immagine delle cupide vele ricorda quella di un assalto piratesco, ma potrebbe significare anche altro. Non dimentichiamo che all’inizio del Purgatorio (I, 1-3) Dante dice:

Per correr migliori acque alza le vele
ormai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar si crudele;

In sostanza, il poeta ci avverte che la poesia della seconda cantica sarà più complessa e sofisticata di quella della prima e che, dunque, la nave del suo intelletto dovrà alzare le vele verso nuovi sentieri di conoscenza; così, anche il lettore dovrà essere chiamato ad un maggiore impegno. Sarebbe possibile collegare tra loro le due immagini? Le vele della nave di Filippo il Bello erano cupide solo del denaro dei Templari (che, tra l’altro, erano stati suoi creditori) o anche di altro? Filippo voleva accedere anche al patrimonio di conoscenze segrete di cui i Templari, forse, erano in possesso e che erano riservate solo agli alti gradi dell’Ordine?
Ma andiamo avanti. Dante invoca dal Signore una vendetta nei confronti del re e dice che essa sarà nascosa, cioè, secondo l’interpretazione corrente, impenetrabile agli occhi dei mortali; ma Dante non potrebbe voler alludere anche ad altro? Se la vendetta sarà segreta, Dante potrebbe voler dire che l’Ordine stesso si vendicherà delle malefatte del re; ma, se l’Ordine verrà ufficialmente soppresso nel 1312, esso potrebbe vendicarsi dei soprusi del sovrano, solo a condizione di entrare in clandestinità ed agire in segreto. In tal caso, Dante alluderebbe alla sopravvivenza sotterranea dei Templari anche dopo il decreto papale di soppressione e ad una loro futura vendetta, da compiersi in segreto, nei confronti della monarchia francese. E, in tal caso, come faceva Dante ad esserne a conoscenza?
Naturalmente, se queste interpretazioni cogliessero nel vero, ciò comporterebbe una serie di implicazioni che modificherebbero un poco l’immagine tradizionale di Dante costruita da decenni d’insegnamento scolastico, ma dobbiamo ricordare che il poeta è stato il maestro della polisemia linguistica e che egli stesso ci ha ricordato nel Convivio che la scrittura può contenere al suo interno significati differenti e stratificati tra loro, che non si escludono, ma si integrano e si illuminano a vicenda.
Con questo intervento, non si  è inteso esporre alcunché di rivoluzionario nel modo d’interpretare il poema (simili osservazioni si ritrovano, ad esempio, già negli studi di Pascoli), ma soltanto ‘stuzzicare’ la curiosità dei lettori ed esortarli a leggere con attenzione i sublimi versi del Sommo Poeta, che tanti tesori hanno in serbo per chi volesse cercarli.

Ferdinando Rotolo (marzo 2011)