giovedì 27 dicembre 2012

Un anno che finisce

Gli antichi dicevano: "anno bisesto, anno funesto". Beh, non so se avessero ragione, certo questo 2012 se ne va portando con sé un senso di incompiutezza dovuto a parecchi 'lavori in corso;' non portati a compimento: poco male, direbbe uno straniero, prima o poi i traguardi saranno raggiunti. Ma noi italici sappiamo che nel nostro stravagante paese nulla è così definitivo come ciò che apparentemente è provvisorio, dunque c'è poco da stare allegri.
Vorrei ora riepilogare alcune delle cose che in questo anno, ormai moribondo, non mi sono piaciute affatto:

  1. A livello di organizzazione statale, abbiamo assistito ad una nuova burocratizzazione dei meccanismi decisionali, come se i processi riformatori potessero essere codificati fin nelle minuzie e come se i politici non sapessero che il voler fare tutto formalmente perfetto si traduce spesso nel non far proprio un bel nulla; inoltre, dopo aver bandito il vituperato centralismo statale, abbiamo assistito allla nascita di un neo-centralismo regionale non meno deleterio del primo, che, ad esempio, ha recato una gran confusione nella gestione del sistema scolastico;
  2. A livello politico, abbiamo assistito alla ingloriosa ritirata di un'intera classe politica, costretta dalle pressioni internazionali a lasciare il posto ad un governo 'tecnico', la cui assunzione di potere ha rappresentato, al di là delle chiacchiere, la certificazione del sostanziale fallimento della classe politica della cosiddetta 'seconda repubblica', che, quanto a inefficienza e corruzione, ha dimostrato di avere ben poco da invidiare a quella della 'prima';
  3. A livello economico, abbiamo assistito ad una crisi davvero pesante, che ha eroso ricchezza e consumi, soprattutto nella classe media, come dimostrato, ad esempio, dai nefasti dati del mercato dell'auto nel 2012, tornato tristemente in Italia quasi ai livelli degli anni '70 in un paese come il nostro, che faceva del settore dell'auto uno dei suoi vanti;
  4. A livello culturale... beh, che dire di un paese in cui i pregiudizi misogeni sono duri a scomparire, in cui si legge sempre meno, in cui gli studenti  delle scuole superiori si collocano nei posti di retroguardia nelle classifiche internazionali, in cui fare ricerca è un'utopia, in cui librerie e teatri fanno fatica a sopravvivere, mentre fioccano come funghi sul territorio paninoteche e anonimi mega-centri commerciali?
Insomma, i motivi di fiducia e speranza nel futuro non mancano di certo! Speriamo che il 2013, ora che le catastrofiche profezie dei Maya purtroppo sono state smentite,  ci porti qualche positiva novità, anche se, a dire la verità, ho imparato per esperienza, come il passeggiere dell'Operetta Morale di Leopardi, a non guardare con troppo ottimismo all'anno nuovo che arriva!

Ferdinando Giuseppe Rotolo (dicembre 2012)

mercoledì 26 dicembre 2012

Il tempo per leggere

Riflettendo sui dati Nielsen sulla lettura in Italia nel 2012, che evidenziano un calo delle vendite di libri (-7% circa in valore), dopo un 2011 che già era stato un anno negativo (-3,5% in valore), mi vengono in mente le parole che Daniel Pennac ha scritto in Come un romanzo, pubblicato in Italia nel lontano 1993; in quel contesto, Pennac affrontava il tema della volontà di trovare il tempo per leggere, in un mondo frenetico e caotico come il nostro, dove l'essere umano è assillato da mille doveri che sembrano quasi snaturarlo e togliergli il tempo per dedicarsi un po' a sé stesso. Del resto anche i media non fanno molto per invogliare i giovani a riscoprire il piacere della lettura, salvo bombardarli con la pubblicità dello 'straordinario' best-seller del momento, da consumare caldo come un arancino, prima che si raffreddi e finisca cestinato nel dimenticatoio! E se cominciassimo a capire che la lettura è un modo per dilatare il tempo per vivere e per ritrovare noi stessi lontano dal baccano della società e dei media? E se comprendessimo finalmente che la lettura è un modo di essere che poco ha a che vedere col tempo sociale? Rileggiamo insieme le parole significative di Pennac:

Sì, ma a quale dei miei impegni rubare quest’ora di lettura quotidiana? Agli amici? Alla tivù? Agli spostamenti? Alle serate in famiglia? Ai compiti?
Dove trovare il tempo per leggere?
Grave problema.
Che non esiste.
Nel momento in cui mi pongo il problema del tempo per leggere, vuol dire che quel che manca è la voglia. Poiché, a ben vedere, nessuno ha mai tempo per leggere. Né i piccoli, né gli adolescenti, né i grandi. La vita è un perenne ostacolo alla lettura.
“Leggere? Vorrei tanto, ma il lavoro, i bambini, la casa, non ho più tempo…”
“Come la invidio, lei, che ha tempo per leggere!”
E perché questa donna, che lavora, fa la spesa, si occupa dei bambini, guida la macchina, ama tre uomini, frequenta il dentista, trasloca la settimana prossima, trova tempo per leggere e quel casto scapolo che vive di rendita, no?
Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare.)
Rubato a cosa?
Diciamo, al dovere di vivere.
È forse questa la ragione per cui la metropolitana - assennato simbolo del suddetto dovere - finisce per essere la più grande biblioteca del mondo.
Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.
Se dovessimo considerare l’amore tenendo conto dei nostri impegni, chi ci si arrischierebbe? Chi ha tempo di essere innamorato? Eppure, si è mai visto un innamorato non avere tempo per amare?
Non ho mai avuto tempo di leggere, eppure nulla, mai, ha potuto impedirmi di finire un romanzo che mi piaceva.
La lettura non ha niente a che fare con l’organizzazione del tempo sociale. La lettura è, come l’amore, un modo di essere.
La questione non è di sapere se ho o non ho tempo per leggere (tempo che nessuno, d’altronde, mi darà), ma se mi concedo o no la gioia di essere lettore.

Il tempo della lettura, come il tempo dell'amore, è un tempo rubato alla società e regalato a noi stessi, affinché proviamo la gioia di un momento ludico e dis-interessato, svincolato da interessi pratici o materiali.
Appunto, rinunciare alla gioia di essere lettore equivale a rinunciare a vivere un momento straordinario, quello della lettura, in cui usciamo dalla routine quotidiana e ci proiettiamo in una dimensione dilatata nello spazio e nel tempo, nella quale per un attimo proiettiamo un raggio d'infinito sulla nostra vita. Non è una scelta triste, ragazzi?

Ferdinando G. Rotolo (dicembre 2012)

venerdì 16 novembre 2012

Le 50 sfumature del nulla.

Talora accade nel mondo dell’editoria che un romanzo, magari scritto da un autore fino a quel momento perfettamente sconosciuto, diventi improvvisamente un best seller. Questo è ciò che è accaduto al romanzo 50 sfumature di grigio, della scrittrice britannica E. L. James, primo capitolo di una specie di trilogia erotica che comprende altre sfumature di altri colori… Un momento, direte voi: la stessa cosa accadde anche alla mitica J. K. Rowling, la quale, prima di scrivere il primo capitolo della saga potteriana, era anch’ella sconosciutissima ai più! Vero, però il caso è un po’ diverso, come vedremo.

Dunque, i protagonisti di questo romanzo sono due personaggi che più stravaganti non potrebbero essere: lei, Anastasia, giovane e ingenua ragazza, che sogna di lavorare nell’editoria, assolutamente ignara delle cose del sesso; lui, Mr. Gray, ricchissimo, bellissimo, potentissimo e misteriosissimo. Lei, che non ha mai avuto una relazione, nemmeno semiseria, con un ragazzo, si innamora follemente di questo tizio appena conosciuto per caso, fino al punto di accettare dei rapporti ‘particolari’ imposti da lui con tanto di contratto, assumendo il ruolo sessuale della 'sottomessa' o della schiava, mentre lui recita quello del ‘padrone’; lui, che, nella posizione sociale in cui si trova, potrebbe avere decine di donne a sua disposizione h24, perde la testa per questa svampita di Anastasia e vuole a tutti i costi farla ‘sua’. Beh, certamente due personaggi credibilissimi sul piano narrativo…
Naturalmente, nel romanzo abbondano le scene di sesso esplicito, legate al rapporto sado-masochistico che lega la ragazza all’uomo ed è probabile che il successo del libro sia anche dovuto alla sua innegabile capacità di ‘solleticare’ gli appetiti pruriginosi di un certo tipo di lettori, ma, come spesso accade nella narrativa, le scene di questo tipo, se iterate eccessivamente, finiscono per annoiare per la loro vuota ripetitività. Il resto appare come un tentativo di scrivere una storia ‘romantica’ in chiave diversa dal solito, ma con uno stile che appare, alla fine, piatto. E qui si misura la distanza dalla J. K. di cui sopra. La Rowling ha creato un mondo narrativo che può piacere o non piacere, però è una che sa scrivere sul serio e che ha saputo creare personaggi, tutto sommato, coerenti col suo mondo narrativo inventato, personaggi che si sono evoluti nel corso della saga, come si è evoluto il suo pubblico di lettori.
Invece la James crea due personaggi che non sfuggono dalla scatola di 'tipi' in cui sono ingabbiati (il padrone esperto e la schiava ingenua) e peraltro non sono nemmeno particolarmente coerenti, considerando che, tra un impetuoso orgasmo e l’altro, lei, una tontarella in stile twilight, sogna di lavorare nel mondo dei libri e lui, mentre vola sul suo jet privato, da miliardario filantropo alla Gates, si preoccupa del grave problema della fame nel mondo! Sarebbe stato meglio fare di lei una subdola arrampicatrice sociale e di lui un cinico sciupafemmine, almeno sarebbero stati due personaggi meno ipocriti.
Comunque, grazie anche alla martellante propaganda del marketing, il libro ha riscosso grande successo con milioni di copie vendute e grande soddisfazione per il conto bancario della James, che certamente sarà rimpinguato anche dall’immancabile sequel cinematografico. Forse, in un mondo in cui esprimere sentimenti autentici sembra essere un’impresa titanica, qualche lettrice, a caccia di emozioni forti come antidoto alla monotonia, avrà gradito un testo che propone uno schema di coppia ‘fuori dal comune’, mentre qualche lettore, per compensare le proprie frustrazioni quotidiane, si sarà volentieri immedesimato nel ruolo dell’onnipotente ed enigmatico Mr. Gray.
Tuttavia, la letteratura inglese ci ha dato ben altri esempi di romanzi in cui la passione travolgente e l’eros diventano potente strumento conoscitivo di autoconsapevolezza dei personaggi nel rapporto con sé stessi e con gli altri, da Cime tempestose a L’amante di lady Chatterley, ma si tratta di opere che appartengono ad un’altra galassia letteraria!
Per noi italiani, dinanzi a certi improvvisi successi editoriali, rimane una certa dose di tristezza nel pensare che, ad esempio, Tomasi di Lampedusa morì con il dispiacere di non aver trovato uno straccio di editore che pubblicasse il suo Gattopardo.

 Ferdinando Giuseppe Rotolo (novembre 2012)

mercoledì 24 ottobre 2012

Contro tutte le guerre...

Nel lontano 1914, allo scoppio della prima Guerra Mondiale, il grande poeta Trilussa compose una bellissima, ironica e amara poesia in romanesco, per denunciare la sorda ipocrisia delle grandi potenze imperialiste d'Europa, che si preparavano a dare inizio ad un'inutile strage, per poi speculare, nel dopoguerra, sul redditizio business della ricostruzione delle città distrutte dal conflitto.
Nel testo della poesia, intitolata Ninna nanna della guerra, Trilussa denuncia gli elementi tipici di tutte le guerre: i pretesti più assurdi e fantasiosi con cui le potenze cercano di dar vita ai conflitti, il dolore ed i lutti che tali conflitti portano alla gente comune, la grande faccia tosta con cui le stesse potenze che hanno voluto i conflitti speculano sulla 'ricostruzione' delle città ferite dai conflitti, magari con il condimento di bei discorsi retorici su pace e lavoro, con cui i potenti di turno cercano di abbindolare le masse, le quali, peraltro, da parte loro, spesso sono ben liete di farsi abbindolare.
Rileggendo, a distanza di tanti decenni, questa poesia, non si può non riconoscere con tristezza che Trilussa aveva colto nel segno e che le cose che egli affermava allora restano, purtroppo, valide ancora oggi: cambiano gli scenari e i nomi dei protagonisti, ma il copione della recita, scritto sempre dai potenti di turno, non è cambiato poi molto: i potenti della terra, nei loro vacui deliri di onnipotenza, prima fanno soffrire terribilmente le popolazioni civili con guerre motivate con i pretesti più fantasiosi; poi, scambiandosi tra loro sorrisi ed inchini, incassano lucrosi guadagni con le ricostruzioni post-belliche. E i popoli? Rimangono spesso passivi, aspettando che i conflitti finiscano, o meglio, che qualcuno, nel buio  di qualche stanza segreta, decida che debbano finire; così possono finalmente festeggiare la ritrovata pace... in attesa della guerra successiva!

Ninna Nanna della guerra (1914)
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d'un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s'ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d'una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Chè quer covo d'assassini
che c'insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finchè dura sto macello:
fa la ninna, chè domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l'ombra d'un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
 
 Ferdinando G. Rotolo (ottobre 2012)

giovedì 2 agosto 2012

Il viaggio


Finalmente arrivano le ferie, dopo un anno di fatiche e di ansie. Desiderate e sognate tutto l'anno, passano poi velocemente, come un soffio di vento. Queste saranno le prime vacanze senza papà, per il quale in una notte di ottobre è giunta l'ora di prendere le ferie definitive da una vita piena di sacrifici, ma impreziosita anche da belle soddisfazioni; ma il ciclo delle stagioni va avanti e, come diceva qualcuno, fata volentes ducunt, nolentes trahunt. In questo momento dell'anno ho voluto buttare giù due parole, per salutare tutti i lettori e ringraziarli per l'attenzione dimostratami durante l'anno: riflessioni ad alta voce sul perpetuo nostro correre avanti ed indietro tra i marosi della vita, alla ricerca della felicità impossibile.
 
E arriva, alla fine, anche il momento della vacanza.
L’ora del riposo da dedicare a sé stessi.
L’ora del fare e disfare, senza un perché, mille e più cose,
senza obblighi, senza orari, senza limiti.

L’ora in cui decidiamo finalmente di volerci bene,
dicendo SI a quei dolci momenti di relax,
cui durante il resto dell’anno diciamo NO
con malinconia, con rabbia, con rassegnazione.

E in questo momento gustiamo nel cuore
il piacere della libertà, di muoversi verso spazi nuovi,
lontano dai sentieri consumati già più e più volte
come una filastrocca a rime sempre uguali.

Ognuno viaggia alla ricerca di qualcosa:
tesori, affetti, serenità, avventura, memoria.
E in estate i viaggiatori si moltiplicano,
come piccoli eserciti di formiche con valigia
nelle piazze, nelle stazioni, negli aeroporti.

Ma il viaggio più affascinante per l’uomo, non solo d’estate,
è anche quello più insidioso, più arduo, più impegnativo:
il viaggio perenne alla scoperta di sé stessi,
senza biglietto, senza percorso prefissato, senza soste prestabilite.
Un viaggio che può riservare grandi sorprese, dolci o amare…
Non importa se non raggiungeremo la meta: forse,
il senso del viaggio non sta nel traguardo da raggiungere,
ma nel percorso compiuto.

Buon viaggio a tutti!

Ferdinando G. Rotolo (agosto 2012)

martedì 31 luglio 2012

Il valore della meritocrazia

 Perché le cose che in altri paesi funzionano in Italia non riescono quasi mai? Perché dinamiche e procedure di valutazione del merito, che in altri paesi sarebbero ovvie, da noi sono viste con sospetto o con ostilità? Perché da noi la pubblica amministrazione assorbe tante risorse, ma offre pessimi servizi? Perché da noi la concorrenza vera, di fatto, non esiste? Perché da noi la mobilità sociale sta diventando sempre più un miraggio?

Chissà quante volte ci siamo posti queste domande e non siamo riusciti a darci una risposta. Ovviamente, essa dovrebbe essere complessa, perché le ragioni di tutto ciò sono varie. Tuttavia, il problema di fondo, da cui discendono, a catena, tutti gli altri, risiede nel fatto che nel nostro paese, ormai da decenni, risulta del tutto assente un’autentica cultura della meritocrazia e delle liberalizzazioni. In pratica, da noi l’ascesa nella scala di una società o di un’azienda pubblica, di solito, non avviene sulla base del merito personale, ma sulla base di altre logiche: appartenenza partitica o sindacale, amicizie, raccomandazioni sottobanco, e così via; così, chi guida una struttura organizzativa spesso non è il migliore, ma è esattamente l’opposto. Così, a cascata, l’ufficio risulta organizzato in modo inefficiente e la qualità dei servizi ne risente in modo conseguente. Se moltiplichiamo l’esempio nella struttura generale dell’amministrazione pubblica, possiamo immaginare i risultati.
Questo è avvenuto per decenni, soprattutto perché la classe politica e sindacale non hanno mai avuto realmente interesse a promuovere la meritocrazia, ma anzi hanno avuto tutto l’interesse a favorire la scalata di persone incompetenti e svogliate, spesso grazie a procedure selettive 'riservate' basate su valutazioni di titoli molto opinabili, che una volta conquistato un posto direttivo, avrebbero poi manifestato tangibilmente la propria ‘riconoscenza’ verso il sistema, amministrando non secondo logiche razionali, ma secondo scelte clientelari, le più redditizie per loro. E se per caso, qualche procedura selettiva viene fatta con un minimo di serietà, quelli rimasti fuori sbraitano e abbaiano alla luna, perché in passato sono stati abituati da pseudo-politicanti e pseudo-sindacalisti alla logica del 'diritto alla promozione' per tutti!
Sul versante delle liberalizzazioni è prevalsa una logica analoga: perché premiare le aziende migliori e più capaci di stare su un mercato realmente concorrenziale? Più semplice spingere le aziende a farsi una concorrenza ‘finta’, con offerte di servizi e prezzi abbastanza similari, il tutto a danno del cliente, che così paga da noi più di quanto avviene all’estero.
Forse, il vero motivo della crisi attuale non è tanto la paura del debito o i problemi finanziari: i mercati non hanno fiducia in noi, non tanto per la storiellina del debito pubblico (che pure è rilevante, ma non è superiore a quello di Giappone o USA), quanto perché non credono nella possibilità per il nostro paese di crescere sul serio economicamente e socialmente. E la ragione ultima di tutto ciò è di tipo culturale, non economico: l’assenza totale di valori meritocratici, che penalizza e demotiva i migliori, e favorisce i peggiori. Se un dipendente è valido ed è capace, ma osserva che il suo lavoro non viene riconosciuto, perché dovrebbe impegnarsi di più? Meglio limitarsi a fare il compitino e fuggire a casa, appena finisce l’orario di servizio! Se un’azienda offre buoni servizi, ma subisce concorrenza sleale da un’altra che magari paga i lavoratori in nero, perché dovrebbe continuare ad operare? Meglio chiudere e delocalizzare all’estero, dove la manodopera costa cifre irrisorie!
E questi problemi toccano da vicino anche la scuola, che, se vuole essere ancora il motore propulsore dello sviluppo, dovrà ripensare a fondo il proprio ruolo. Nei decenni passati abbiamo assistito alla crescita della scuola 'inclusiva', figlia delle elaborazioni culturali del ’68, la quale ha avuto il grande merito di promuovere il diritto allo studio come diritto fondamentale del cittadino, indipendentemente dall’estrazione sociale di appartenenza. Oggi, però, quel modello educativo comincia a mostrare il peso degli anni. Col tempo, il diritto allo studio è divenuto diritto alla promozione automatica e la motivazione all’apprendimento nei nostri allievi è progressivamente calata, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: non è un caso che nelle indagini internazionali i nostri studenti siano collocati in posizioni non esattamente di primo piano. A poco vale contestare il valore di tali indagini: sarebbe come rifiutarsi di guardare il termometro, per paura di scoprire la febbre. Se è vero che esiste anche un problema di risorse da investire, che sono insufficienti e spesso mal spese, è altrettanto vero che c’è anche un problema di motivazione: sul versante degli allievi, a parte quella minoranza di ragazzi che ha la maturità per capire il valore della cultura, gli allievi che sanno di non rischiare nulla, non studiano, semplicemente; sul versante dei docenti, è innegabile che molti di essi non facciano quanto sarebbe nelle loro potenzialità, perché mal retribuiti e soprattutto sviliti dalla pressoché totale mancanza di incentivi di carriera che valorizzino ci lavora di più e meglio.
In Italia la scuola ha avuto in questi anni soprattutto una funzione educativa in senso largo, ma oggi nel mercato del lavoro globalizzato i nostri diplomati e laureati devono competere sul campo con i loro coetanei di altri paesi, che spesso sono (molto) più preparati di loro, per cui non hanno bisogno  di un semplice diplomino, magari corredato da un bel voto fittizio, da appendere alla parete, ma di acquisire quelle competenze elevate che consentano loro di affermarsi nella società e  di non divenire dei disoccupati a vita, facile preda delle lusinghe vane del politicante di turno a caccia di voti.
Ancora una volta, occorre avere il coraggio di impostare un cambiamento culturale profondo, orientato verso la valorizzazione di chi, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, ha realmente voglia di studiare e di lavorare con impegno e di realizzarsi pienamente nella società; se questo cambiamento culturale non avverrà, le migliori intelligenze, stufe di essere mortificate nei loro sforzi, fuggiranno definitivamente all’estero in cerca di gratificazioni professionali vere ed il paese, stavolta sul serio, dovrà rassegnarsi ad un lento, ma inevitabile declino.

Ferdinando G. Rotolo (luglio 2012)

lunedì 18 giugno 2012

Fahrenheit 451, 61 anni dopo.

Agli inizi del mese di giugno ci ha lasciato il grande scrittore americano Ray Bradbury, autore di vari racconti di fantascienza, come le Cronache marziane, ma soprattutto del celebre romanzo Fahrenheit 451. Questo romanzo narra le vicende di un vigile del fuoco, Guy Montag, che vive in una ipotetica società del futuro, nella quale il Potere considera un reato la lettura dei libri e impone alla gente di 'istruirsi' esclusivamente attraverso la televisione. Montag stesso ha l'incarico di bruciare i libri che trova, ma, un giorno, decide per curiosità di leggerne uno e da allora comincia a racconglierli di nascosto e a leggerli, commettendo così agli occhi del Potere un grave reato. Dopo essere stato scoperto, anche per la delazione della sua stessa moglie, che lo ha denunciato, Montag fugge fuori dalla città ed incontra un gruppo di persone che, per cercare di salvare dalla distruzione il patrimonio letterario dell'umanità e trasmetterlo ai posteri, imparano clandestinamente a memoria i libri che possiedono, pur consapevoli dei rischi che corrono.
Questo testo ha meritatamente avuto enorme successo e ad esso si ispirò anche  il regista francese F. Truffaut per la pellicola omonima.
Appare evidente come l'autore abbia voluto rappresentare i pericoli insiti in una società controllata da un potere dispotico capace di controllare le coscienze; non è affatto un caso che il Potere affidi alla televisione il compito di 'educare' i cittadini, in quanto essa è uno strumento diffuso in modo capillare ed è unidirezionale, cioé non consente l'interattività tra emittente e ricevente: lo spettattore è un soggetto puramente passivo, quasi un vaso da riempire, o meglio da indottrinare con verità preconfezionate! 
Il libro, invece, consente al lettore di sviluppare il senso critico, il gusto estetico, la proprietà  di linguaggio, tutte cose che facilitano la crescita di una coscienza civile autonoma: esattamente ciò che il Potere non desidera! Perciò i libri devono essere bruciati...
Quante volte nella storia abbiamo assistito ai roghi di libri! Nel medioevo si bruciavano i libri considerati malefici e legati alla stregoneria; durante il nazismo si bruciavano i libri ritenuti portatori di valori 'anti-ariani'; anche oggi in alcune zone del mondo i seguaci di una tal religione bruciano i testi sacri appartenenti a una religione diversa, e così via.


Ma oggi, nel moderno e opulento occidente, potrebbe mai accadere quanto immaginato da Bradbury? Il Potere ha ancora paura dei libri? A mio parere, si; solo che oggi esso adotta una strategia più subdola. Oggi il Potere non minaccia roghi di libri, che certamente darebbero nell'occhio; piuttosto cerca di far passare il messaggio che la lettura sia, in fondo, una perdita di tempo. 

Cari ragazzi, cari giovani, care donne, perché vi affannate a leggere? Oggi è molto meglio vedere la TV, guardare spettacoli 'edificanti' come Il grande fratello (guardacaso...) o 'interessanti' talk show basati sul gossip; chi ha più tempo per leggere I promessi sposi o Il cavaliere inesistente? E poi, cari cittadini-consumatori-sudditi, che bisogno c'è di affinare la lingua? Ormai l'anglicizzazione di massa ha semplificato anche l'italiano: a cosa serve il congiuntivo? A cosa servono i termini astratti o i sinonimi? Molto meglio conoscere pochi vocaboli, facili facili da imparare (non a caso la neolingua di cui parlava Orwell in 1984 prevedeva l'uso di pochissimi vocaboli...)!

Insomma, il Potere vorrebbe avere a che fare con masse di cittadini ignoranti, poco amanti della lettura e molto della TV, possibilmente dotati di un lessico povero, dato che i vocaboli sono veicolo delle idee. Certo, oggi non vediamo vigili del fuoco che, come Montag, vanno in giro ad incendiare libri! Però vediamo librerie popolate da visitatori sempre più radi, mentre i centri commerciali,  divenuti i nuovi paradisi artificiali del consumismo, sono affollatissimi; leggiamo dati di vendita che ci dicono che in un paese di enorme tradizione culturale come l'Italia si legge pochissimo, mentre la gente, persuasa dalla pubblicità martellante, spende un mucchio di quattrini per l'abbigliamento 'griffato'; e, mentre i libri di grammatica riposano su polverosi scaffali, osserviamo gli effetti deleteri che il linguaggio televisivo e dei media sta avendo sulla lingua dei nostri ragazzi, che parlano un italiano sempre più povero e sempre più deformato da orrendi anglicismi. 
Così, a distanza di 61 anni dalla sua prima pubblicazione, il romanzo di Bradbury suona ancora come un monito per tutti noi a vigilare e a fare qualcosa, ognuno nel suo campo, affinché le nuove generazioni non considerino le librerie come un posto da disertare, ma come un luogo piacevole, dove poter passare serenamente qualche ora, alla ricerca di un vero amico: un libro capace di farci sognare, di spingerci alla riflessione, di accrescere il nostro sapere. E, soprattutto, tocca a noi docenti il compito, certo non facile, di avvicinare i nostri allievi ai libri, seminando, nella fase della loro adolescenza, quella curiosità della lettura che possa un giorno spingerli a divenire lettori abituali: sarà un ottimo servizio che avremo fatto all'indipendenza delle loro coscienze e, quando saranno adulti, ce ne saranno grati!

(Ferdinando G. Rotolo, giugno 2012)

domenica 17 giugno 2012

Il fulmine e la quercia: Bellum Civile I, 135-155

Il poema di Lucano, il Bellum Civile o Pharsalia, come viene chiamato, rappresenta di certo una delle tappe più significative della poesia latina dell'età imperiale. Con voi, ragazzi, abbiamo spiegato in classe le novità che l'opera propone rispetto al modello epico tradizionale, rappresentato dall'Eneide di Virgilio. Qui ora vorrei piuttosto soffermarmi con voi su alcuni versi del libro I, nei quali il poeta presenta i due principali contendenti nella guerra civile.
All'inizio del suo poema epico, Lucano, che intende sconvolgere i canoni dell'epica virgiliana tradizionale, ci presenta i due capi dei contrapposti schieramenti che si fronteggiano: da un lato Pompeo, difensore delle antiche libertà repubblicane, dall'altro Cesare, il condottiero bramoso di vittoria e potere che aspira a distruggere la res publica.
Certamente, la simpatia di Lucano va nei confronti di Pompeo, almeno all'inizio del poema, ma egli sa bene che anche Pompeo non è spinto da nobili ideali, ma piuttosto da motivazioni personali. Ebbene, risulta molto significativa la similitudine che all'inizio del libro I viene utilizzata da Lucano. A partire dai versi I, 135 e segg. il poeta paragona Pompeo ad una grande e venerabile quercia, che reca sui rami i doni sacri dei capi, ma non è più in grado di aderire al terreno:

                       Stat magni nominis umbra
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum nec validis radicibus haerens...

Successivamente, ai versi I, 151 e segg. Lucano introduce la figura di Cesare, che viene paragonato ad un fulmine, che brilla e fende il giorno e atterrisce tutti con la sua potenza:

qualiter expressum ventis per nubila fulmen
aetheris inpulsi sonitu mundique fragore
emicuit rupitque diem populos paventes
terruit obliqua praestringens lumina flamma... 

Insomma, Pompeo rappresenta la tradizione con il suo carico di memorie ed onori, ma non sembra in grado di produrre ancora valori in grado di competere con quelli di Cesare, che rappresenta la forza delle nuove classi che aspirano a sovvertire l'ordine aristocratico. 
Come andra a finire?
Beh, è la similitudine stessa a suggerircelo: il fulmine colpirà la quercia e la abbatterà, ossia la fazione cesariana riuscirà ad abbattere il vecchio ordinamento repubblicano e ciò rappresenterà per Roma l'inizio della fine.
Anche qui compare sullo sfondo il pessimismo lucaneo nei confronti della storia, che, a differenza di quanto credeva Virgilio, non è guidata da alcun moto provvidenziale divino, ma è dominata dal caso e spesso non vede prevalere i giusti, ma i malvagi.
Comunque le immagini contrapposte della quercia e del fulmine appaiono molto efficaci.

(Ferdinando G. Rotolo, giugno 2012)

venerdì 2 marzo 2012

Come è profondo il mare...

Nel momento in cui tutti rendiamo omaggio alla figura di un poeta che ci lascia (e tale era Lucio Dalla), mi piace qui ricordare il testo di una canzone incisa nel lontano 1977, che, riletto ora a distanza di anni, non manca di stupirci per la sua complessità; dietro la metafora scelta dal musicista non è difficile ritrovare la rappresentazione allegorica dei laceranti conflitti che hanno segnato il '900, con l'eterno contrasto tra chi possiede troppo e chi possiede troppo poco, il peso di un Potere asfissiante, il desiderio, innato in ogni uomo, di vivere in libertà. Tuttavia, il testo rivela una sua sorprendente attualità nella parte conclusiva, dove si afferma che il Potere è disposto a tutto, pur di reprimere il 'pensiero divergente', anche a costo di 'umiliare il mare', cioé di togliere all'uomo il contesto sociale in cui egli può esprimere pienamente e  la sua personalità come cittadino libero: la democrazia. Questo prezioso bene, inventato dai nostri fratelli greci migliaia di anni or sono, lo si può attaccare in molti modi: con i carri armati, con le leggi liberticide, con la censura; tuttavia bisogna ricordare che esso può essere aggredito anche con la subdola propaganda mediatica di chi, mettendo in risalto con forza  le colpe dei partiti (che pure esistono, eccome!) al fine di gettare il totale discredito su di loro, vorrebbe farci credere che la democrazia sarebbe, tutto sommato, migliore senza di essi. Eppure, temo che una democrazia senza partiti (una democrazia 'tecnica'?) non sarebbe più una democrazia, ma assomiglierebbe a qualcosa di molto diverso: una società chiusa e ipercontrollata, in cui pochi potenti oligarchi dominerebbero un'immensa massa di servi ridotti al sonno, i quali, a differenza dei servi del mondo antico, non saprebbero nemmeno di esserlo! Meditate, gente, meditate!

Ci nascondiamo di notte
Per paura degli automobilisti
Degli inotipisti
Siamo i gatti neri
Siamo i pessimisti
Siamo i cattivi pensieri
E non abbiamo da mangiare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare

Babbo, che eri un gran cacciatore

Di quaglie e di faggiani
Caccia via queste mosche
Che non mi fanno dormire
Che mi fanno arrabbiare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare

E' inutile

Non c'è più lavoro
Non c'è più decoro
Dio o chi per lui
Sta cercando di dividerci
Di farci del male
Di farci annegare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare

Con la forza di un ricatto

L'uomo diventò qualcuno
Resuscitò anche i morti
Spalancò prigioni
Bloccò sei treni
Con relativi vagoni
Innalzò per un attimo il povero
Ad un ruolo difficile da mantenere
Poi lo lasciò cadere
A piangere e a urlare
Solo in mezzo al mare
Com'è profondo il mare

Poi da solo l'urlo

Diventò un tamburo
E il povero come un lampo
Nel cielo sicuro
Cominciò una guerra
Per conquistare
Quello scherzo di terra
Che il suo grande cuore
Doveva coltivare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare

Ma la terra

Gli fu portata via
Compresa quella rimasta addosso
Fu scaraventato
In un palazzo,in un fosso
Non ricordo bene
Poi una storia di catene
Bastonate
E chirurgia sperimentale
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare

Intanto un mistico

Forse un'aviatore
Inventò la commozione
E rimise d'accordo tutti
I belli con i brutti
Con qualche danno per i brutti
Che si videro consegnare
Un pezzo di specchio
Così da potersi guardare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare

Frattanto i pesci

Dai quali discendiamo tutti
Assistettero curiosi
Al dramma collettivo
Di questo mondo
Che a loro indubbiamente
Doveva sembrar cattivo
E cominciarono a pensare
Nel loro grande mare
Com'è profondo il mare
Nel loro grande mare
Com'è profondo il mare

E' chiaro

Che il pensiero dà fastidio
Anche se chi pensa
E' muto come un pesce
Anzi un pesce
E come pesce è difficile da bloccare
Perchè lo protegge il mare
Com'è profondo il mare

Certo

Chi comanda
Non è disposto a fare distinzioni poetiche
Il pensiero come l'oceano
Non lo puoi bloccare
Non lo puoi recintare
Così stanno bruciando il mare
Così stanno uccidendo il mare
Così stanno umiliando il mare
Così stanno piegando il mare



Ferdinando G. Rotolo (marzo 2012)

domenica 26 febbraio 2012

Orme sulla sabbia

Dedicato a tutti coloro che in questo momento soffrono,  a causa della solitudine, della malattia, o semplicemente dell'indifferenza massiccia degli altri, ecco il testo originale portoghese (e la traduzione) di un famoso componimento, scritto da un anonimo brasiliano, in cui un uomo si pone domande sui momenti più difficili della vita e scopre che, in realtà esiste Qualcuno che, nonostante le apparenze, non ci lascia mai soli, anche quando i cosiddetti amici non si accorgono del nostro disagio; un testo, composto nella splendida lingua lusitana, che dona speranza ai credenti, ma che può far riflettere anche i non credenti, perché invita tutti a non 'girarci dall'altra parte' dinanzi a chi soffre.

Pegadas na areia
Uma noite eu tive um sonho.
Sonhei que estava andando na praia com o Senhor
e através do Céu, passavam cenas da minha vida.
Para cada cena que se passava, percebi que eram deixados
dois pares de pegadas na areia;
Um era meu e o outro do Senhor.
Quando a última cena da minha vida passou
Diante de nós, olhei para trás, para as pegadas
Na areia e notei que muitas vezes, no caminho da
Minha vida havia apenas um par de pegadas na areia.
Notei também, que isso aconteceu nos momentos
Mais difíceis e angustiosos do meu viver.
Isso entristeceu-me deveras, e perguntei
Então ao Senhor.
"- Senhor, Tu me disseste que, uma vez
que eu resolvi Te seguir, Tu andarias sempre
comigo, todo o caminho mas, notei que
durante as maiores atribulações do meu viver
havia na areia dos caminhos da vida,
apenas um par de pegadas. Não compreendo
porque nas horas que mais necessitava de Ti,
Tu me deixastes."
O Senhor me respondeu:
"- Meu precioso filho. Eu te amo e
jamais te deixaria nas horas da tua prova
e do teu sofrimento.
Quando vistes na areia, apenas um par
de pegadas, foi exactamente aí que EU,
nos braços...Te carreguei."


Orme sulla sabbia
Questa notte ho fatto un sogno,
ho sognato che camminavo sulla sabbia
accompagnato dal Signore,
e sullo schermo della notte erano proiettati
tutti i giorni della mia vita.

Ho guardato indietro e ho visto che

per ogni giorno della mia vita,
apparivano orme sulla sabbia:
una mia e una del Signore.

Così sono andato avanti, finché

tutti i miei giorni si esaurirono.
Allora mi fermai guardando indietro,
notando che in certi posti
c'era solo un'orma...
Questi posti coincidevano con i giorni
più difficili della mia vita;
i giorni di maggior angustia,
maggiore paura e maggior dolore...

Ho domandato allora:

"Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me
in tutti i giorni della mia vita,
ed io ho accettato di vivere con te,
ma perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti
peggiori della mia vita?"

Ed il Signore rispose:

"Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato
con te durante tutta il tuo cammino
e che non ti avrei lasciato solo
neppure un attimo,
e non ti ho lasciato...
i giorni in cui tu hai visto solo un'orma
sulla sabbia,
sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio".

Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2012)
 

mercoledì 11 gennaio 2012

Ricordando la Shoah

Come è noto, il giorno 27 gennaio ricorre la giornata della memoria, in ricordo dello sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Ogni anno si spendono tante parole per rievocare quella oscura pagina di barbarie che insanguinò la storia dell'Europa e non è certo mia intenzione aggiungerne altre, che suonerebbero retoriche; vorrei, però, approfittare di questo spazio, per riflettere ancora sulle parole che un grande scrittore italiano, Primo Levi, scrisse per ricordare a tutti quanto era accaduto. Egli era un sopravvissuto alla Shoah e dal dolore del ricordo trasse la forza per comporre una poesia che, simile ad un antico Salmo biblico, rievoca la sofferenza del popolo ebraico, perseguitato, umiliato e distrutto da tanto odio insensato; essa rappresenta  ancora un monito per tutti, specialmente per i giovani, a non dimenticare ciò che è accaduto, affinché drammi inauditi come questi, che poterono accadere anche grazie a molte, forse troppe complicità ed omissioni, non si ripetano in futuro, né contro gli ebrei, nè contro qualunque altra minoranza etnica.

Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
 
Ferdinando G. Rotolo (gennaio 2012)