martedì 31 luglio 2012

Il valore della meritocrazia

 Perché le cose che in altri paesi funzionano in Italia non riescono quasi mai? Perché dinamiche e procedure di valutazione del merito, che in altri paesi sarebbero ovvie, da noi sono viste con sospetto o con ostilità? Perché da noi la pubblica amministrazione assorbe tante risorse, ma offre pessimi servizi? Perché da noi la concorrenza vera, di fatto, non esiste? Perché da noi la mobilità sociale sta diventando sempre più un miraggio?

Chissà quante volte ci siamo posti queste domande e non siamo riusciti a darci una risposta. Ovviamente, essa dovrebbe essere complessa, perché le ragioni di tutto ciò sono varie. Tuttavia, il problema di fondo, da cui discendono, a catena, tutti gli altri, risiede nel fatto che nel nostro paese, ormai da decenni, risulta del tutto assente un’autentica cultura della meritocrazia e delle liberalizzazioni. In pratica, da noi l’ascesa nella scala di una società o di un’azienda pubblica, di solito, non avviene sulla base del merito personale, ma sulla base di altre logiche: appartenenza partitica o sindacale, amicizie, raccomandazioni sottobanco, e così via; così, chi guida una struttura organizzativa spesso non è il migliore, ma è esattamente l’opposto. Così, a cascata, l’ufficio risulta organizzato in modo inefficiente e la qualità dei servizi ne risente in modo conseguente. Se moltiplichiamo l’esempio nella struttura generale dell’amministrazione pubblica, possiamo immaginare i risultati.
Questo è avvenuto per decenni, soprattutto perché la classe politica e sindacale non hanno mai avuto realmente interesse a promuovere la meritocrazia, ma anzi hanno avuto tutto l’interesse a favorire la scalata di persone incompetenti e svogliate, spesso grazie a procedure selettive 'riservate' basate su valutazioni di titoli molto opinabili, che una volta conquistato un posto direttivo, avrebbero poi manifestato tangibilmente la propria ‘riconoscenza’ verso il sistema, amministrando non secondo logiche razionali, ma secondo scelte clientelari, le più redditizie per loro. E se per caso, qualche procedura selettiva viene fatta con un minimo di serietà, quelli rimasti fuori sbraitano e abbaiano alla luna, perché in passato sono stati abituati da pseudo-politicanti e pseudo-sindacalisti alla logica del 'diritto alla promozione' per tutti!
Sul versante delle liberalizzazioni è prevalsa una logica analoga: perché premiare le aziende migliori e più capaci di stare su un mercato realmente concorrenziale? Più semplice spingere le aziende a farsi una concorrenza ‘finta’, con offerte di servizi e prezzi abbastanza similari, il tutto a danno del cliente, che così paga da noi più di quanto avviene all’estero.
Forse, il vero motivo della crisi attuale non è tanto la paura del debito o i problemi finanziari: i mercati non hanno fiducia in noi, non tanto per la storiellina del debito pubblico (che pure è rilevante, ma non è superiore a quello di Giappone o USA), quanto perché non credono nella possibilità per il nostro paese di crescere sul serio economicamente e socialmente. E la ragione ultima di tutto ciò è di tipo culturale, non economico: l’assenza totale di valori meritocratici, che penalizza e demotiva i migliori, e favorisce i peggiori. Se un dipendente è valido ed è capace, ma osserva che il suo lavoro non viene riconosciuto, perché dovrebbe impegnarsi di più? Meglio limitarsi a fare il compitino e fuggire a casa, appena finisce l’orario di servizio! Se un’azienda offre buoni servizi, ma subisce concorrenza sleale da un’altra che magari paga i lavoratori in nero, perché dovrebbe continuare ad operare? Meglio chiudere e delocalizzare all’estero, dove la manodopera costa cifre irrisorie!
E questi problemi toccano da vicino anche la scuola, che, se vuole essere ancora il motore propulsore dello sviluppo, dovrà ripensare a fondo il proprio ruolo. Nei decenni passati abbiamo assistito alla crescita della scuola 'inclusiva', figlia delle elaborazioni culturali del ’68, la quale ha avuto il grande merito di promuovere il diritto allo studio come diritto fondamentale del cittadino, indipendentemente dall’estrazione sociale di appartenenza. Oggi, però, quel modello educativo comincia a mostrare il peso degli anni. Col tempo, il diritto allo studio è divenuto diritto alla promozione automatica e la motivazione all’apprendimento nei nostri allievi è progressivamente calata, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: non è un caso che nelle indagini internazionali i nostri studenti siano collocati in posizioni non esattamente di primo piano. A poco vale contestare il valore di tali indagini: sarebbe come rifiutarsi di guardare il termometro, per paura di scoprire la febbre. Se è vero che esiste anche un problema di risorse da investire, che sono insufficienti e spesso mal spese, è altrettanto vero che c’è anche un problema di motivazione: sul versante degli allievi, a parte quella minoranza di ragazzi che ha la maturità per capire il valore della cultura, gli allievi che sanno di non rischiare nulla, non studiano, semplicemente; sul versante dei docenti, è innegabile che molti di essi non facciano quanto sarebbe nelle loro potenzialità, perché mal retribuiti e soprattutto sviliti dalla pressoché totale mancanza di incentivi di carriera che valorizzino ci lavora di più e meglio.
In Italia la scuola ha avuto in questi anni soprattutto una funzione educativa in senso largo, ma oggi nel mercato del lavoro globalizzato i nostri diplomati e laureati devono competere sul campo con i loro coetanei di altri paesi, che spesso sono (molto) più preparati di loro, per cui non hanno bisogno  di un semplice diplomino, magari corredato da un bel voto fittizio, da appendere alla parete, ma di acquisire quelle competenze elevate che consentano loro di affermarsi nella società e  di non divenire dei disoccupati a vita, facile preda delle lusinghe vane del politicante di turno a caccia di voti.
Ancora una volta, occorre avere il coraggio di impostare un cambiamento culturale profondo, orientato verso la valorizzazione di chi, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, ha realmente voglia di studiare e di lavorare con impegno e di realizzarsi pienamente nella società; se questo cambiamento culturale non avverrà, le migliori intelligenze, stufe di essere mortificate nei loro sforzi, fuggiranno definitivamente all’estero in cerca di gratificazioni professionali vere ed il paese, stavolta sul serio, dovrà rassegnarsi ad un lento, ma inevitabile declino.

Ferdinando G. Rotolo (luglio 2012)