Nel mondo globalizzato di oggi, uno dei principi che maggiormente
oggi vengono predicati attraverso i media, pare con discreto successo, è quello
del cosiddetto ‘relativismo culturale’; secondo tale principio, non
esisterebbero valori assoluti, in quanto ogni civiltà, nel corso del suo sviluppo
storico, arriva ad elaborare una propria ‘visione’ del mondo, con una propria
gerarchia di valori, che ha la stessa validità delle ‘visioni’ elaborate da
altre civiltà in altri tempi e luoghi.
Dunque, i modelli culturali
elaborati da una civiltà non devono necessariamente essere ‘migliori’ di quelli
elaborati da un’altra civiltà, perché ognuna di esse elabora i propri principi,
valori, credenze, idee e sulla base di essi si struttura in un determinato
contesto storico. Pertanto, bisognerebbe educare alla diversità, all’alterità, perché
le differenze tra individui sono prevalenti rispetto ai tratti comuni e non
esistono valori universali assoluti che prescindano dalle diverse culture storicamente formatesi.
Ora, tutto questo sembra
apparentemente molto democratico e progressista, specie se confrontato con le
tendenze assunte in passato della cultura occidentale, che ai tempi del
colonialismo anglosassone e ispanico forniva una giustificazione ideologica al
bieco imperialismo coloniale attraverso la favoletta della missione di recare
la ‘civiltà’ ai ‘selvaggi’ dell’America o dell’Africa. Tuttavia il modello
culturale del relativismo, tanto oggi pubblicizzato dai media, in fondo cosi
tanto democratico e progressista poi non è.
Se infatti ogni civiltà elabora
in proprio una sua cultura, sulla base della quale struttura i suoi valori, che
necessariamente sono differenti da quelli di altre culture, non solo sul piano
quantitativo, ma anche su quello qualitativo, come potranno queste culture
dialogare tra loro?
Se, come affermava Oswald
Spengler nella sua famosissima opera Der Untergang des Abendlandes (1923), una umanità con caratteri comuni esiste solo a
livello elementare, zoologico, mentre a livello storico essa non esiste, ma
cede il passo a gruppi umani qualitativamente distinti in base a fattori
esclusivamente culturali, indipendenti e separati tra loro, come organismi
autonomi dotati di valori differenti, come potranno mai questi organismi
instaurare rapporti positivi tra loro?
In realtà, una volta affermato il
principio che non esiste una umanità spirituale universale che si pone al di
sopra delle pur innegabili differenze storico-culturali, ideale caro a Kant,
filosofo non a caso aspramente contestato da Spengler, ma si sostiene che i
valori hanno senso e significato solo all’interno di una determinata civiltà, allora
il rischio è che ogni civiltà eriga delle barriere insormontabili rispetto alle
altre, determinando una sorta di ‘terra di nessuno’ tra le culture, in cui
prevalgono l'incomunicabilità, la diffidenza, se non l’aperta ostilità distruttiva.
Così, ad esempio, dopo la fine della guerra fredda ed il crollo dell'URSS, proprio mentre le etnie locali, per decenni oppresse e annullate sotto la cappa asfissiante del comunismo realizzato, trovavano finalmente lo spazio e l'occasione di affermare dinanzi al resto del mondo la propria identità e la propria cultura, abbiamo assistito al fiorire nell'est europeo di esasperate spinte nazionalistiche, che hanno dato vita a conflitti anche aspri: nella ex-Jugoslavia, nel Caucaso, nelle repubbliche baltiche, nell'Ucraina. Si è così realizzata la profezia della storiografa Marie Helene d'Encausse, che nel 1981 nel suo saggio Decline of an Empire, aveva previsto che l'impero sovietico, a lungo andare, sarebbe stato prima corroso e poi distrutto dai nazionalismi interni.
Così, ad esempio, dopo la fine della guerra fredda ed il crollo dell'URSS, proprio mentre le etnie locali, per decenni oppresse e annullate sotto la cappa asfissiante del comunismo realizzato, trovavano finalmente lo spazio e l'occasione di affermare dinanzi al resto del mondo la propria identità e la propria cultura, abbiamo assistito al fiorire nell'est europeo di esasperate spinte nazionalistiche, che hanno dato vita a conflitti anche aspri: nella ex-Jugoslavia, nel Caucaso, nelle repubbliche baltiche, nell'Ucraina. Si è così realizzata la profezia della storiografa Marie Helene d'Encausse, che nel 1981 nel suo saggio Decline of an Empire, aveva previsto che l'impero sovietico, a lungo andare, sarebbe stato prima corroso e poi distrutto dai nazionalismi interni.
Ecco allora che oggi si palesa il
rischio che il relativismo culturale, nato con l’intento di combattere
l’etnocentrismo, finisca, paradossalmente, per dargli cospicuo alimento,
giustificando chiusure e conflitti tra i popoli. Come affermava il popperiano Ian Jarvie nel suo Rationalism and relativism (1983), dietro la facciata del relativismo non è difficile intravedere il fantasma del
nichilismo e quello di una umanità spezzettata, frantumata in tante unità
differenziate e incomunicabili, ognuna delle quali appare intenta a difendere
la 'bandierina 'dei propri valori, che, all’interno della singola comunità
appaiono assoluti e indiscutibili: da qui al conflitto tra culture e, magari, tra i popoli, purtroppo,
il passo è piuttosto breve.
Ferdinando G. Rotolo (ottobre 2014)