sabato 15 febbraio 2014

La regola del tricheco


Tempo fa, il governo canadese autorizzò gli Inuit a cacciare un certo numero di trichechi, come esenzione culturale rispetto a una regola generale che imponeva il divieto. Poiché il tricheco era, però, anche sulle liste dei cacciatori più spregiudicati, un giorno gli Inuit proposero al governo di cedere, dietro compenso, il diritto di sparo ai cacciatori non Inuit, tenendo comunque per sé una parte della carne e della pelle degli animali uccisi.
Il governo canadese accettò di buon grado. In fondo, da tutta la faccenda sembravano guadagnarci tutti: gli Inuit ricavavano denaro, i cacciatori ottenevano una preda, al governo canadese poco importava che i trichechi fossero uccisi da tizio o da caio, mentre i trichechi comunque sarebbero stati uccisi dagli uni o dagli altri. Tutto regolare… o forse no.
A parte la stupidità della pratica della caccia ad un esemplare animale che può essere cacciato senza alcun rischio e senza alcun senso della sfida (mica è una tigre o un leone…), un conto è accordare un riconoscimento ‘culturale’ ad una pratica, condivisibile o meno, ma che, comunque, affonda le sue radici nella cultura di un popolo, ben altra cosa è trasformare quella pratica in un affare per far soldi, perché questo svilisce anche il residuo valore ‘culturale’ di quella pratica.
Questo esempio un po’ esotico può servire per chiedersi oggi quale sia il reale valore del denaro, non inteso ovviamente nel senso di strumento di scambio commerciale, ma nel senso di metro unico di paragone su cui misurare ogni cosa: abitudini, credenze, valori.
Nella moderna società di massa si fa fatica ad individuare dei valori condivisi, data l’estrema frammentazione culturale, sociale e morale della società, nella quale ognuno costruisce il suo ‘fortino’ di credenze e opinioni, sempre meno disposto a discuterne con gli altri. Ecco allora che sembra emergere con forza la facile tentazione di ‘esternalizzare’ le questioni morali, affidandole al mercato, nella sciocca illusione che esso sia uno strumento neutro, che distribuisce beni secondo le reali preferenze ed esigenze delle persone.
In realtà, il mercato oggi è diretto dalle potenti elites internazionali del capitalismo e dell’alta finanza che, alla fine della fiera, dettano le agende ai governi e prendono decisioni di politica economica che passano ben al di sopra delle teste degli ignari cittadini (o meglio, consumatori); inoltre, anche le scelte dei consumatori sono spesso eterodirette dalla propaganda dei mass-media, anch’essi strumenti tutt’altro che neutri, capaci d’indirizzare sottobanco i gusti delle persone senza neppure che queste ne siano pienamente consapevoli.
In sostanza, il mercato non è affatto uno strumento neutrale e non può indicarci cosa è giusto e cosa è sbagliato. Se accettassimo questa teoria, allora dovremmo concludere che la compravendita di una casa, di un’auto, di un rene, così come l’affitto di una mansarda o di un utero siano moralmente equivalenti, una volta accettata l’idea che tutto possa ricadere sotto le leggi di mercato. Ma sarà davvero piacevole vivere in una società costruita su simili presupposti, nella quale, naturalmente, chi possiederà più quattrini potrà permettersi tutto, anche al di là dei paletti morali? E sarà davvero democratica una società del genere, nella quale i cittadini, narcotizzati dalla fiducia fideistica nelle capacità miracolose del mercato di dare a ciascuno il suo, perderanno progressivamente l’abitudine alle discussioni libere e aperte sui valori che dovrebbero stare alla base di una comunità?
Credo proprio di no.

Ferdinando Giuseppe Rotolo (febbraio 2014)