sabato 27 febbraio 2016

Il rito, il riso, la rosa: Guglielmo e Adso.


In un precedente post abbiamo discusso di come nel romanzo Il nome della rosa, le figure di Guglielmo di Baskerville e di Jorge da Burgos rappresentassero nella narrazione due modelli molto diversi di intendere ed interpretare la circolazione del sapere. Naturalmente, però, il romanzo di Eco, per la sua complessità, si presta ad offrire molteplici chiavi di lettura.
Ad un primo livello, esso offre al lettore gli ingredienti tipici del romanzo giallo: una serie misteriosa di delitti, avvenuti in un’abbazia medievale, ed un frate investigatore chiamato a risolverli. Il mistero, alla fine, verrà svelato e il colpevole verrà scoperto, anche se costui trascinerà nella rovina l’intera abbazia.
Ad un secondo livello, il testo offre al lettore gli elementi tipici del romanzo storico: la descrizione meticolosa della vita quotidiana in un’abbazia medievale e i contrasti esistenti tra l’ordine francescano, che predica la povertà, ed una Chiesa romana attaccata invece ai lussi e alle ricchezze e pronta a bollare di eresia chiunque osi contestare il suo potere politico. Non mancheranno i tentativi di dialogo, ma saranno destinati al fallimento.
Ad un terzo livello, l’opera offre al lettore la struttura tipica del romanzo di formazione: la figura di un giovane frate, Adso da Melk, stretto collaboratore di Guglielmo, e del suo faticoso cammino di crescita nella fede e nella conoscenza. Egli considera Guglielmo una specie di tutor, ma arriverà, alla fine della sua esistenza, a conclusioni morali e filosofiche piuttosto divergenti da quelle del maestro.
Ad un quarto livello, il romanzo offre al lettore più colto le caratteristiche tipiche del romanzo filosofico, laddove esso discute, più o meno apertamente, del problema della conoscenza e dei segni che l’uomo adopera per decifrare il mondo. Ecco, tale aspetto dell’opera, seppur piuttosto ostico, rappresenta forse quello più importante, nell’ottica dell’autore, che è stato un illustre semiologo.
Quello dei segni si pone come problema fondamentale sin dall’inizio del racconto, dal momento che Guglielmo cerca di scoprire le motivazioni e l’autore dei delitti attraverso dei ‘segni’ che egli ritiene siano stati deliberatamente lasciati dall’assassino, quasi come una specie di ‘firma’. Seguendo il proprio ragionamento, Guglielmo arriva, sì, a scoprire l’assassino, ossia Jorge, ma dovrà riconoscere che il suo ragionamento logico non è esatto, in quanto solo alcuni dei ‘segni’ da lui individuati sono stati lasciati sulla scena dei delitti da Jorge, mentre altri sono frutto di casualità. Allora, alla fine del racconto, mentre l’Edificio dell’abbazia viene divorato dall’incendio scatenato da Jorge nel suo delirio, Guglielmo riflette amaramente su quanto è accaduto e sulla sua incapacità di interpretare correttamente il senso degli avvenimenti che lo hanno visto coinvolto.
Ecco, allora, che il dialogo finale tra lui e Adso riveste la massima importanza, per le sue implicazioni ideologiche e filosofiche. Guglielmo si duole di non aver compreso bene la scia degli avvenimenti accaduti nei suoi meccanismi di causa ed effetto ed arriva alla dolente conclusione di aver ‘letto’ un ordine delle cose, laddove un ordine, in realtà, non c’è. Dunque egli arriva ad affermare che non esiste un ordine predefinito nel cosmo, in quanto questo limiterebbe la libera volontà e onnipotenza di Dio.
Per capire questo concetto, occorre ricordare che nel Medioevo fu molto vivo tra i teologi il dibattito sull’onnipotenza divina, che essi distinguevano in potestas ordinata e potestas absoluta. Semplificando molto, potremmo dire che la potestas ordinata è quella con cui Dio regola il cosmo attraverso le leggi che Egli stesso ha fissato ab aeterno, mentre la potestas absoluta è una sorta di ‘riserva straordinaria’ di potere, grazie alla quale Dio potrebbe intervenire nel cosmo, se lo volesse, anche andando al di là delle leggi che Egli stesso ha creato.
Ora, occorre tener presente che l’autore, nel delineare la figura di Guglielmo, si è ispirato a quella del famoso pensatore medievale Guglielmo di Ockham, che nei suoi scritti analizzò l’argomento in modo originale, collocando la potestas absoluta in una fase precedente la creazione e la potestas ordinata in quella successiva: ossia, Dio avrebbe potuto esercitare la sua libera volontà in qualunque modo, creando mondi anche profondamente diversi dal nostro, mentre con la creazione ha dato concretamente leggi al cosmo per mezzo della potestas ordinata.
Tornando al Guglielmo del romanzo, come detto, egli arriva alla conclusione che il cosmo, seppur potenzialmente strutturabile, non appare mai completamente strutturato, perché un rigido ordine del cosmo, come detto, limiterebbe l’assoluta liberta e onnipotenza di Dio: dunque non esiste un ordine nell’universo. A questo punto Adso, sconvolto, osa arrivare ad una conclusione teologica ancor più ardita:

“Ma come può esistere un essere necessario totalmente intessuto di possibile? Che differenza c’è allora tra Dio e il caos primigenio? Affermare l’assoluta onnipotenza di Dio e la sua assoluta disponibilità rispetto alle sue stesse scelte, non equivale a dimostrare che Dio non esiste?”

A queste drammatiche domande Guglielmo non risponde, ma ribatte con un’altra domanda:

“Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?”

Insomma, se Dio potesse davvero tutto e manifestasse la sua potenza in modo assoluto, anche al di là delle leggi presenti nel cosmo, non avremmo più un ordine nel creato, ma un guazzabuglio informe di aventi casuali e di possibilità che accadono per il solo fatto che possono accadere, insomma un Caos, all’interno del quale Dio non avrebbe più, in realtà, alcuna funzione. Se così fosse, però, anche la scienza ne uscirebbe con le ossa rotte, in quanto non vi sarebbe nemmeno possibilità di trasmettere il sapere, dal momento che, nel caos generale, venendo meno qualunque criterio di verità oggettiva, ogni proposizione potrebbe essere ugualmente vera o falsa e ogni fenomeno potrebbe essere reale o fittizio. Per tale ragione, Guglielmo non se la sente di spingersi fino allo scetticismo nichilista cui approda il suo discepolo, che nelle pagine finali del romanzo, appressandosi il momento della morte, sembra identificare il Divino con il Nulla.
E’ stato scritto nel corso degli anni che questo romanzo rappresenterebbe un’apologia del relativismo ateo moderno e, certamente, questa, potrebbe essere una sensata chiave di lettura. Attenzione, però! Lo stesso autore ci ha più volte ricordato che un testo narrativo è una macchina costruita per generare interpretazioni, che possono anche andare al di là delle intenzioni originarie dell’autore, il quale, non senza ironia, ha spesso affermato nei suoi scritti che immagini, metafore, segni, sono tutti elementi importanti, ma non vanno presi troppo sul serio; e non mi meraviglierei se, in qualche angolo del cosmo, il Prof. Eco, leggendo queste righe, pensasse sogghignando: “Ecco un altro che c’è cascato!”

Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2016)

domenica 21 febbraio 2016

Il rito, il riso, la rosa: Jorge e Guglielmo.


Molti decenni or sono, tra gli studiosi di letteratura divampò una polemica riguardo al rapporto tra letteratura e società: mentre i critici di ispirazione marxista sostenevano che la letteratura, e, più in generale, tutta la cultura fossero delle sovrastrutture ideologiche tali da riflettere i rapporti sociali presenti all’interno di un determinato momento storico, i critici di ispirazione neoidealista rifiutavano questa visione e sostenevano che, al contrario, i fenomeni artistici non fossero affatto condizionati dai mutamenti sociali, al punto che essi non consideravano la possibilità di comporre una storia della letteratura o dell’arte che studiasse lo stretto rapporto tra cultura e società, ammettendo, al massimo, che si potesse scrivere una ‘storia della cultura’ in sé e per sé. 
In realtà, appare difficile negare che l’evoluzione della società abbia condizionato l’evoluzione della cultura, se non altro perché ne ha condizionato le modalità di fruizione. Un tempo, la cultura circolava attraverso l’ambiente ristretto delle corti dei Principi o dei Sovrani, che, da buoni mecenati interessati, ospitavano all’interno delle loro corti intellettuali di varia provenienza (e di vario valore), i quali, in cambio della possibilità di comporre e di esprimere la loro arte, non rinunciavano ad omaggiare il principe che generosamente li ospitava: Virgilio, Petrarca, Ariosto, per citarne alcuni, furono poeti cortigiani. Dopo il passaggio dalla società aristocratica a quella borghese e la nascita dell’industria editoriale, la letteratura cortigiana si è andata esaurendo, così che gli scrittori hanno potuto, in modo relativamente autonomo, iniziare a comporre le loro opere per un pubblico più ampio e articolato. Nel dopoguerra, con l’avvento della società industriale di massa, anche il libro è divenuto un prodotto esso stesso di massa, soggetto alle mode e al marketing pubblicitario allo stesso modo di altri beni di consumo, come le automobili e le lavatrici.
Al di là dell’evoluzione storica, il vero problema è costituito, però, dalla funzione sociale che si è attribuita alla cultura, con particolare riferimento alla letteratura. In tal caso, al di là del variare dei rapporti sociali ed economici, al di là del nascere e morire delle correnti letterarie, al di là del mutare dei gusti del pubblico, potremmo dire che le posizioni prevalenti sono state essenzialmente due: da una parte vi sono stati coloro che hanno ritenuto la letteratura e, più in generale, la cultura come un fattore di progresso sociale, motivo per cui essi si sono battuti per una sua diffusione progressivamente (avverbio non casuale) sempre più ampia, in modo da consentire a strati sempre maggiori della popolazione di crescere nel sapere e, armati di esso, cercare e trovare una collocazione adeguata nel mondo; dall’altra parte della barricata si sono collocati coloro che hanno sempre considerato la letteratura e, più in generale, la cultura come uno strumento di potere e di dominio sulle masse, ragion per cui si sono battuti (con mezzi leciti e non), perché la sua diffusione non andasse al di là di una ristretta elite sociale, che, per mezzo di questo sapere gelosamente conservato, potesse mantenere la propria posizione di dominio sul resto della società.
E qui mi sia consentito offrire una riflessione che è anche un omaggio ad compianto un grande intellettuale, Umberto Eco, che nel suo romanzo più famoso, Il nome della rosa, caleidoscopico capolavoro letterario nel quale coesistono insieme più generi letterari e molteplici livelli di significato, affronta, tra gli altri temi, con grande efficacia narrativa proprio questo argomento. Nella parte conclusiva del romanzo, il momento di spannung (ossia di massima tensione narrativa) è dato proprio dal memorabile ‘duello’ intellettuale tra Guglielmo di Baskerville e Jorge. Guglielmo, dopo aver indagato sui misteriosi delitti avvenuti all’interno dell’abbazia, interpretando i segni lasciati dall’assassino, è arrivato alla conclusione che sia stato Jorge ad uccidere i vari frati, per impedire loro di accostasi alla lettura del II libro dell’Arte Poetica di Aristotele, quello dedicato alla commedia; dal canto suo, Jorge non solo non nega di essere lui l’autore di tali nefandi crimini, ma quasi si vanta di aver compiuto una missione benemerita, perché non può tollerare che il maestro Aristotele, ammiratissimo nel Medioevo, col suo testo abbia fornito ai lettori gli strumenti intellettuali per ridere di tutto, anche della verità.
Appare evidente che, nella scrittura di Eco, i due personaggi rappresentano i campioni di quelle due tendenze che abbiamo sopra descritto: entrambi (e forse anche l’autore) in fondo sono convinti che il sapere sia una irta montagna, sulla cui sommità più alta solo pochi sono in grado di salire. Detto questo, tra i due esiste, tuttavia, una non trascurabile differenza di opinione sulla funzione sociale che il sapere dovrebbe assumere: per Guglielmo, la cultura è strumento di perfezionamento interiore e di progresso sociale, dunque nessuno dovrebbe porre barriere artificiose alla sua piena fruizione da parte di tutti, anche a costo di far circolare teorie o modelli culturali ‘scomodi’ o ‘non ortodossi’ per la mentalità corrente;  Jorge, invece, è il paladino di una cultura ristretta alla classe dominante ed è disposto a tutto, pur di impedire che essa goda di una diffusione più ampia, perché teme che essa possa fornire alla masse gli strumenti cognitivi per mettere in discussione l’autorità, ogni autorità, spirituale e temporale. Per lui, finché le masse resteranno nel vuoto culturale, esse potranno magari imprecare contro i loro padroni, ma non potranno mai sostituirsi ad essi, perché saranno condannate alla sconfitta dalla loro stessa ignoranza.
E nel finale apocalittico del romanzo, descrivendo l’incendio che distrugge l’Edificio, l’autore ci ammonisce anche con una potente metafora sulla rovina che incombe su qualunque società che abbia la presunzione di escludere larghe fette della popolazione dalla fruizione del sapere, della cultura, dell’arte, poiché queste sono splendida espressione di quella scintilla di Luce divina creatrice che l’intelligenza umana possiede dentro di sé, senza della quale, piaccia o no, gli esseri umani sono destinati a vivere come bruti, come diceva Dante.
Ecco, queste semplici riflessioni su uno dei tanti (e complessi) livelli di lettura del suo romanzo più noto vogliono essere il mio personale e sommesso omaggio all'opera intellettuale e alla fantasia narrativa di un grande scrittore ed infaticabile organizzatore culturale, che ha saputo applicare anche alla cultura di massa di oggi gli strumenti di decifrazione propri della semiotica e dello strutturalismo, offrendo spunti di analisi sorprendenti, e che, tra le altre cose, anche a costo di sfidare la communis opinio circolante in certi ambienti, non ha mai fatto mistero di considerare l’eredità della cultura classica greco-latina come patrimonio fondamentale e prezioso della nostra identità, da trasmettere con gelosa cura alle generazioni future.

Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2016)