In occasione del recente (e un
po’ improvvisato) vertice tra Renzi, Hollande e la Merkel tenutosi al largo
dell’isola di Ventotene, da parte di certa stampa si è detto, un po’
retoricamente, che i tre leader dei rispettivi paesi intendevano ritrovarsi per
recuperare lo spirito dei padri ispiratori del Manifesto di Ventotene, che da
alcuni è ritenuto uno dei documenti fondanti dell’Unione Europea.
In sintesi, alcuni intellettuali
e militanti di opposizione, negli anni tra il 1941 e il 1944 vennero inviati al
confino nell’isola di Ventotene dal regime fascista e li, alcuni di loro,
collaborarono alla stesura del famoso Manifesto.
Si tratta di un documento,
articolato in quattro sezioni, nel quale gli autori, dopo aver analizzato le
cause storiche e sociali che (a loro parere) avevano portato alla nascita dei
regimi totalitari in Europa, prospettavano per il futuro la creazione di un
super stato europeo che fosse in grado si superare gli antichi nazionalismi che
avevano lacerato l’Europa in quegli anni.
Ora, considerate le diverse
sensibilità degli autori, era inevitabile che nel documento comparissero alcune
contraddizioni, che emergono, in particolare, sia nella parte in cui si
analizza la nascita dei totalitarismi dal seno stesso delle democrazie liberali
dell’Ottocento (ad esempio, non spiegando chiaramente come mai lo stato-nazione
totalitario in Italia e Germania si sia differenziato dallo stato liberale di
stampo anglosassone), sia nella parte in cui non vengono chiaramente definiti i
contorni di questo superstato e non si spiega chiaramente perché mai esso
dovrebbe essere immune dai totalitarismi del passato (e di quali garanzie di
libertà i suoi cittadini dovrebbero fruire).
Tuttavia, quando si fa
riferimento ad un documento e lo si ritiene addirittura, ad opera di certa
propaganda, uno dei testi fondanti dell’ideale europeista, bisognerebbe
leggerlo interamente in tutte le sue parti, poiché le memorie culturali non
possono essere prese a porzioni, come fette di torta, ma vanno inquadrate
globalmente nel loro contesto storico. E allora, ecco che, per i fanatici della
tecnocrazia ultraliberista che regna a Bruxelles e che mira a dettare le agende
ai governi del continente, non mancherebbero le sorprese nel documento. Un
esempio? Proviamo a leggere alcuni estratti della parte III del Manifesto. Dopo
aver affermato che la futura rivoluzione europea dovrà avere un carattere
sostanzialmente socialista, il documento dice:
Il
principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della
collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea
deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare
gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse,
guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne
siano vittime.
In
sostanza, si afferma che le forze economiche non sono potenze di un cieco destino, ma
possono e devono essere governate e guidate in vista di un interesse comune ben più
vasto. Il libero mercato, da solo, non crea benessere diffuso, ma anzi accresce
le disuguaglianze.
Poi si
aggiunge, con maggiore chiarezza:
Le
gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale,
non vanno spente…vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore
possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e
consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore
utilità per tutta la collettività.
Si
ribadisce il concetto che la libera iniziativa economica rappresenta un fattore
di progresso, ma si sottolinea, al tempo stesso, che essa deve esplicarsi
all’interno di argini robusti e ben definiti, sempre in funzione dell’interesse
collettivo.
E
ancora:
non
si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente
monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad
esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita
per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi
protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di
questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le
imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai
occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli
organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es.
industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E'
questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su
scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti.
Senti, senti: si afferma il
principio che lo Stato dovrebbe nazionalizzare le industrie di interesse
strategico (energia elettrica, ecc.) o quelle che, per le loro dimensioni, sono
in condizione di esercitare un virtuale ricatto sulla politica (risorse
energetiche, banche, armamenti, ecc). Insomma, si riafferma il principio che lo
Stato dovrebbe intervenire nell’economia, per eliminare o ridurre gli effetti
distorti dello sviluppo capitalistico.
E infine:
La solidarietà sociale
verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò
manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli
stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di
provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano
lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al
risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti
di lavoro iugulatori;
Vanno previsti sussidi per coloro
che, per varie ragioni, sono fuori dal mercato del lavoro, senza ricorrere a
forme pseudo-assistenziali che non risolvono alla radice i problemi delle
disuguaglianze sociali e civili.
Insomma, siamo piuttosto lontani
dagli assiomi dell’odierno ultraliberismo, secondo i quali il sistema economico
capitalistico globalizzato, ormai completamente svincolato da qualsiasi
controllo da parte della politica, sarebbe in grado di garantire benessere,
prosperità e felicità a tutti i cittadini, trasformati, in realtà, in semplici
consumatori, zelantemente educati dalla propaganda mediatica a identificare la
felicità nel puro e semplice possesso di beni di consumo (e del denaro
necessario a procurarseli).
Ma la domanda vera da porsi,
mentre vanno in scena delle fiction come quella allestita qualche settimana fa a
Ventotene, è: esistono ancora intellettuali che, da posizioni socialiste, siano capaci di lavorare alla costruzione
di una cultura che offra una critica all’assetto capitalistico globalizzato
dell’attuale società occidentale?
Ferdinando G. Rotolo (settembre 2016)
Ferdinando G. Rotolo (settembre 2016)