lunedì 12 settembre 2016

Il Vento... tiene?


In occasione del recente (e un po’ improvvisato) vertice tra Renzi, Hollande e la Merkel tenutosi al largo dell’isola di Ventotene, da parte di certa stampa si è detto, un po’ retoricamente, che i tre leader dei rispettivi paesi intendevano ritrovarsi per recuperare lo spirito dei padri ispiratori del Manifesto di Ventotene, che da alcuni è ritenuto uno dei documenti fondanti dell’Unione Europea.
In sintesi, alcuni intellettuali e militanti di opposizione, negli anni tra il 1941 e il 1944 vennero inviati al confino nell’isola di Ventotene dal regime fascista e li, alcuni di loro, collaborarono alla stesura del famoso Manifesto.
Si tratta di un documento, articolato in quattro sezioni, nel quale gli autori, dopo aver analizzato le cause storiche e sociali che (a loro parere) avevano portato alla nascita dei regimi totalitari in Europa, prospettavano per il futuro la creazione di un super stato europeo che fosse in grado si superare gli antichi nazionalismi che avevano lacerato l’Europa in quegli anni.
Ora, considerate le diverse sensibilità degli autori, era inevitabile che nel documento comparissero alcune contraddizioni, che emergono, in particolare, sia nella parte in cui si analizza la nascita dei totalitarismi dal seno stesso delle democrazie liberali dell’Ottocento (ad esempio, non spiegando chiaramente come mai lo stato-nazione totalitario in Italia e Germania si sia differenziato dallo stato liberale di stampo anglosassone), sia nella parte in cui non vengono chiaramente definiti i contorni di questo superstato e non si spiega chiaramente perché mai esso dovrebbe essere immune dai totalitarismi del passato (e di quali garanzie di libertà i suoi cittadini dovrebbero fruire).
Tuttavia, quando si fa riferimento ad un documento e lo si ritiene addirittura, ad opera di certa propaganda, uno dei testi fondanti dell’ideale europeista, bisognerebbe leggerlo interamente in tutte le sue parti, poiché le memorie culturali non possono essere prese a porzioni, come fette di torta, ma vanno inquadrate globalmente nel loro contesto storico. E allora, ecco che, per i fanatici della tecnocrazia ultraliberista che regna a Bruxelles e che mira a dettare le agende ai governi del continente, non mancherebbero le sorprese nel documento. Un esempio? Proviamo a leggere alcuni estratti della parte III del Manifesto. Dopo aver affermato che la futura rivoluzione europea dovrà avere un carattere sostanzialmente socialista, il documento dice:

Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.

In sostanza, si afferma che le forze economiche non sono potenze di un cieco destino, ma possono e devono essere governate e guidate in vista di un interesse comune ben più vasto. Il libero mercato, da solo, non crea benessere diffuso, ma anzi accresce le disuguaglianze.
Poi si aggiunge, con maggiore chiarezza:

Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente…vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.

Si ribadisce il concetto che la libera iniziativa economica rappresenta un fattore di progresso, ma si sottolinea, al tempo stesso, che essa deve esplicarsi all’interno di argini robusti e ben definiti, sempre in funzione dell’interesse collettivo.
E ancora:

non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti.

Senti, senti: si afferma il principio che lo Stato dovrebbe nazionalizzare le industrie di interesse strategico (energia elettrica, ecc.) o quelle che, per le loro dimensioni, sono in condizione di esercitare un virtuale ricatto sulla politica (risorse energetiche, banche, armamenti, ecc). Insomma, si riafferma il principio che lo Stato dovrebbe intervenire nell’economia, per eliminare o ridurre gli effetti distorti dello sviluppo capitalistico.
E infine:

La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;

Vanno previsti sussidi per coloro che, per varie ragioni, sono fuori dal mercato del lavoro, senza ricorrere a forme pseudo-assistenziali che non risolvono alla radice i problemi delle disuguaglianze sociali e civili.
Insomma, siamo piuttosto lontani dagli assiomi dell’odierno ultraliberismo, secondo i quali il sistema economico capitalistico globalizzato, ormai completamente svincolato da qualsiasi controllo da parte della politica, sarebbe in grado di garantire benessere, prosperità e felicità a tutti i cittadini, trasformati, in realtà, in semplici consumatori, zelantemente educati dalla propaganda mediatica a identificare la felicità nel puro e semplice possesso di beni di consumo (e del denaro necessario a procurarseli).
Ma la domanda vera da porsi, mentre vanno in scena delle fiction come quella allestita qualche settimana fa a Ventotene, è: esistono ancora intellettuali che, da posizioni socialiste,  siano capaci di lavorare alla costruzione di una cultura che offra una critica all’assetto capitalistico globalizzato dell’attuale società occidentale?

Ferdinando G. Rotolo (settembre 2016)