
Ebbene, ogni
volta che queste svolte epocali si sono presentate agli individui, si sono
sempre fronteggiate tra loro due opposte tendenze: quella propria di chi,
guardando indietro, ha sognato la conservazione dei vecchi equilibri e quella
di chi, invece, ha cercato di costruirne di nuovi. Insomma, si è sempre
presentato dinanzi agli occhi l’eterno conflitto tra conservatori e
progressisti, che magari hanno assunto nomi diversi nel corso delle varie
epoche, ma al fondo sono sempre stati animati dallo stesso contrasto ideale (e
di interessi).
La cosa più
interessante, però, è osservare che questo stesso schema si è riproposto anche
nella storia delle idee, nella storia della cultura, che è stata anch’essa
terreno di scontro (e talora d’incontro) tra correnti di pensiero differenti o
addirittura contrapposte: spiritualisti contro materialisti, romantici contro
illuministi, marxisti contro liberali, e così via. E proprio attraverso questa
dialettica che la storia della cultura si è sviluppata nel corso dei secoli, in
un interscambio fecondo tra punti di vista differenti. Tutto ciò, però, non è
stato indolore, né potrà mai esserlo, dal momento che le diverse ideologie sono
espressione, dal punto di vista sociale, di differenti interessi contrapposti
che si fronteggiano con tutte le armi disponibili: la propaganda, la
persuasione più o meno occulta, l’indottrinamento, perfino la violenza.
E il ruolo dell’intellettuale?
Beh, se affermassimo che gli intellettuali hanno sempre assunto un ruolo di
puntuale critica degli assetti esistenti o di costruttori di nuovi scenari
culturali e sociali, diremmo una grossa inesattezza: troppe volte, nel corso
dei secoli, gli intellettuali si sono ‘adattati’ all’esistente e si sono
comodamente sistemati al servizio delle classi al potere, come, ad esempio, i
poeti di corte del ‘500 e del ‘600, pronti a tessere le lodi del Principe
presso cui erano ospitati e ben attenti a non scrivere nulla che potesse
irritarlo, o certi ‘giornalisti’ contemporanei, pronti a dare in pasto al
pubblico notizie sostanzialmente insulse, ma utili allo scopo di distrarre
l’opinione pubblica dai reali problemi della società.
Certo, la
mancanza di libertà d’espressione ha influito in modo determinante sulla
possibilità degli intellettuali d’incidere positivamente sulla società. Nei
regimi assolutistici, dove la libertà, di fatto, non esiste, non è davvero
facile far circolare nuove idee. Come afferma l’autore del Dialogus de
oratoribus, dove non c’è libertà di parola,
non può esserci grande eloquenza, né possono esserci grandi oratori, perché il
dibattito culturale ha bisogno, per svilupparsi, di libere discussioni, di
dialoghi tra culture, di scambio dialettico di idee. E, dove esistono regimi
dispotici, tutto questo non può avvenire e chi ha provato ad opporsi a questo
stato di cose ha pagato di persona, divenendo martire della libertà: Seneca,
Giordano Bruno, Tommaso Moro, Gobetti, Gramsci.
Ma esiste un altro
problema. Anche là dove esiste un’apparente democrazia, l’intellettuale spesso
trova difficoltà ad affermare le proprie idee, quando queste vanno contro le
opinioni correnti, perché la massa, intorpidita dall’abitudine alle verità
preconfezionate astutamente coltivate da chi gestisce il potere, guarda con
fastidio a quegli intellettuali che hanno il coraggio di analizzare
criticamente la realtà e di proporre strade nuove.
Quando, nella
tragedia Medea, Euripide fa dire alla protagonista che coloro che portano idee nuove e
sapienti alla massa vengono considerati, nella migliore delle ipotesi, degli
sciocchi perditempo, il poeta non si riferisce solo alla protagonista della
tragedia, mal vista dal re di Corinto perché donna colta ed esperta di arti
magiche, ma pensa anche a sé stesso e alle notevoli difficoltà incontrate da un
intellettuale anticonformista come lui nella Atene democratica del V° secolo a.
C. dove l’attaccamento alle tradizioni era ancora forte. Del resto, il compito
di un intellettuale diventa molto difficile, quando nel popolo subentra la
stanchezza verso la politica e prevale il ripiegamento nel privato. Infatti,
affinché l’intellettuale possa intervenire in modo dinamico sulla realtà,
occorre che ci sia non solo libertà di parola, ma anche libertà ‘di ascolto’,
intesa come possibilità di libera scelta di valori da parte della comunità.
Tuttavia, ieri come oggi, quando prevalgono nel popolo i condizionamenti di una
communis opinio che addita come unici obiettivi della vita il
successo, il denaro, il potere e il piacere, allora l’intero sistema sociale
non individua altro scopo se non quello di perpetuare sé stesso e i suoi
privilegi di classe (o di casta, come si dice oggi). In un contesto simile,
l’intellettuale, quello vero, viene respinto come un corpo alieno, perché la
sua testimonianza, la sua ricerca faticosa di una prospettiva sociale e
culturale nuova risulta scomoda per il Potere e per la massa, sia pure per
ragioni diverse. Il sapere critico promuove il progresso, che rappresenta la
possibilità di un mutamento; esso è naturalmente un rischio, ma anche una
necessità storica.
Ed arriviamo
così al titolo di questo post, dedicato alle famose Idi di marzo del 44 a. C. ,
quando un gruppo di congiurati uccise Cesare a tradimento: uno sciocco
manipolo di reazionari, che sognavano, a suon di pugnalate, di ripristinare il vecchio stato
oligarchico repubblicano, unitamente agli sfacciati privilegi di cui godeva la
vecchia classe aristocratica senatoria romana, il cui potere Cesare, grande
uomo politico e grande intellettuale, aveva iniziato a corrodere dall’interno.
E ogni volta che le forze più
conservatrici, in contesti diversi, hanno usato la violenza per impedire il
cambiamento, le Idi di marzo si sono ripetute più volte con vittime diverse, ma
tutte accomunate dal sogno di offrire una speranza di rinnovamento: Gandhi,
Martin Luther King, Itzaac Rabin. Come i bravi reazionari di ogni epoca, i
cesaricidi si illudevano di fermare la Storia con la violenza, ma, come i bravi
reazionari di ogni epoca, fallirono.
Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2013)