Bene, cari amici lettori, ora che il PD è
meravigliosamente confluito nel governo di larghe intese che ne decreterà, a
lungo andare, la fine politica, potremmo approfittarne per porci qualche
domanda sul ‘dopo’, ossia su chi o cosa rappresenterà in parlamento quella che
un tempo si chiamava ‘sinistra’.
Per fare ciò, però, come il buon Carletto Marx insegnava ai bei tempi,
occorrerebbe fare un minimo di analisi; e noi, sommessamente, ci proviamo.
Diciamo la verità: il progetto da
cui era nato il PD era tutt’altro che disprezzabile. Esso rappresentava il
sogno di creare in Italia un moderno partito di centro-sinistra, riformista,
europeista, aperto anche ai movimenti della società civile, ma, al tempo
stesso, slegato dalla vecchia cultura politica della sinistra, ormai
inutilizzabile.
Ebbene, oggi possiamo dire che
quel sogno non si è realizzato, per vari motivi, ma soprattutto perché la
sinistra non ha saputo o voluto fare i conti con la sua storia, mantenendo un
rapporto ambiguo col suo passato.
In verità, in Italia, nel
dopoguerra, la cultura politica socialdemocratica non ha mai avuto larga
influenza, in quanto la sinistra era egemonizzata dal più grande partito
comunista dell’Europa occidentale, legato politicamente ed economicamente a
Mosca; un partito, per intenderci, il cui leader Berlinguer, peraltro politico
di gran lunga migliore di quelli attuali, aspettò i fatti di Polonia del 1980
per accorgersi che “la Rivoluzione d’Ottobre ha ormai esaurito la propria
spinta propulsiva”…; evidentemente, quando i carri armati russi intervenivano
in Ungheria nel 1956 o in Cecoslovacchia nel 1968 egli era ‘distratto’.
I partiti di ispirazione
socialista o socialdemocratica hanno sempre rappresentato da noi forze
minoritarie nella sinistra, e, del resto, proprio quando la caduta fragorosa
del muro di Berlino e del comunismo reale era lì a dimostrare che essi, i tanto
vituperati socialisti, avevano avuto ragione sul piano politico e storico,
guardacaso arrivò il ciclone ‘tangentopoli’, forse non del tutto endogeno, che
li spazzò via nel giro di qualche anno. Ma questa è un’altra storia…
Così, gli ex comunisti si
riciclarono rapidamente ed il PCI, divenne prima PDS, poi DS, ma non basta
cambiare nome per cambiare cultura politica. Come potevano dirigenti e
funzionari, fedeli marxisti da una vita, rinnovarsi in quattro e quattr’otto
per divenire riformisti dalla sera alla mattina? Ovviamente, era impossibile,
così il PDS-DS si trovava privo di quella cultura politica che gli avrebbe
consentito di analizzare i grandi cambiamenti sociali intervenuti dopo la fine
della guerra fredda: la crisi istituzionale in Italia, la globalizzazione
dell’economia, le nuove esigenze della piccola e media impresa italiana, i
mutamenti climatici, l’impatto delle tecnologie nelle aziende e la conseguente trasformazione
della vecchia ‘classe operaia’, le nuove forme di comunicazione digitale, il
rapporto con l’Europa, e così via.
Dinanzi a questi nuovi scenari,
la classe dirigente del PDS-DS non ha capito proprio un bel nulla, assumendo
posizioni apparse ai più di retroguardia, se non conservatrici, e lasciando così che fosse sempre il
centro-destra a dettare astutamente, di fatto, l’agenda politica dinanzi
all’opinione pubblica, mentre il centro-sinistra inseguiva, arrancando in modo
confuso e spesso contraddittorio.
Da questa crisi era nato il PD,
cioè il partito che avrebbe dovuto amalgamare al proprio interno l’anima
ex-comunista e quella del cattolicesimo progressista, che proveniva dalla ex
sinistra DC. Oggi, possiamo dire che quelle due anime non si sono mai fuse e
che, anzi, la storia interna del PD ha assunto spesso i connotati della lotta
interna tra bande, fazioni, correnti e correntine, sempre più sorde alle
istanze provenienti dalla società civile e scioccamente autoreferenziali. I
risultati elettorali del 2013 non sono altro che l’ultima certificazione del
fallimento politico di quel progetto che si chiamava PD e che, come detto in
apertura, arriverà al definitivo de profundis, quando quel volpone di Zio Silvio avrà deciso di staccare la spina ad
un governo di cui egli è, sotto sotto, il vero padrone.
E così torniamo alla
domanda iniziale: quando il PD imploderà, con cosa lo sostituiremo?
A nostro modesto parere, bisogna
partire dal principio che la sinistra, se vuole sopravvivere in Italia, non potrà
che divenire plurale, il che significa
che occorrerà creare una federazione di partiti che possa collegare insieme le
due anime fondamentali dell’area progressista: da una parte un’anima più legata
alla tradizione ‘socialdemocratica’ tradizionale, dall’altra un’anima più
‘movimentista’. Pensare di continuare a tenerle insieme a forza è una pura
illusione, perciò tanto vale dividersi in modo palese e alla luce del sole,
senza stupide faide di palazzo.
Poi c’è la questione
programmatica. Le primarie, in una simile coalizione federata, sarebbero
incentrate più sui programmi che sugli
uomini, evitando il rischio di divenire un
rituale vuoto, che serve solo alla perpetuazione del gruppo dirigente.
E quali punti programmatici
dovrebbero essere discussi? Almeno quattro.
- La riforma istituzionale. Piaccia o no, ormai siamo entrati in un presidenzialismo di fatto, necessario a colmare il vuoto generato dalla crisi irreversibile dei partiti. Vogliamo finalmente discutere senza tabù su questo ed elaborare una visione progressista del presidenzialismo o lasciamo, come al solito, questo argomento al centro-destra?
- Lo stato sociale. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che lo stato sociale di vecchio stampo, un tempo abbastanza efficace, nelle condizioni attuali, è insostenibile. Vogliamo finalmente elaborare un progetto di riforma vera del welfare, prima che esso imploda completamente, lasciando sul terreno solo macerie?
- Il federalismo. Ormai le differenze socio-economiche tra le varie regioni d’Italia sono tante e tali, che il nostro è un paese unito solo sulla cartina geografica; nel momento in cui la Campania ha denunciato nel 2012 un tasso di disoccupazione del 15,5% contro il 5% del Veneto (dati ISFOL), oppure la Lombardia ha registrato nel 2012 (dati Infocamere) ben 821.819 imprese attive, contro le sole 155.502 della Calabria, di quale razza di unità della nazione stiamo parlando? Non sarebbe ora, anche a sinistra, di lavorare su una seria riforma federale dello Stato che possa aggregare tra loro regioni omogenee per economia e società? O chiudiamo gli occhi e lasciamo che sia la Lega ad occuparsene?
- Istruzione e ricerca. Una classe politica di media intelligenza dovrebbe capire che questi sono settori strategici per un paese, dunque dovrebbe investire più risorse in essi, anziché ridurle sistematicamente, come si è stupidamente fatto in questi anni. Tali investimenti, però, non dovrebbero essere fatti ‘a pioggia’, ma dovrebbero da un lato, premiare gli atenei migliori e le scuole migliori, cioè quelle istituzioni culturali capaci di fare ‘vera’ ricerca e ‘vera’ innovazione, esattamente come avviene all’estero; dall’altro, offrire un sostegno alle scuole o alla università che operano in contesti sociali particolarmente difficili. Anche su questo argomento, la sinistra sembra piuttosto in ritardo, dato che, per decenni, la parola meritocrazia è stata pressocché assente dal suo dizionario.
Come si vede,
gli argomenti per discutere all’interno della sinistra sono parecchi. La
domanda, piuttosto, è: la sinistra avrà davvero la forza per avviare una
discussione programmatica seria o preferirà, come al solito, inseguire
cambiamenti gattopardeschi che non portano da nessuna parte? Per i progressisti
la posta in gioco è davvero alta: o sopravvivere o scomparire definitivamente.
Ferdinando G. Rotolo (maggio 2013)
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