martedì 14 aprile 2020

Copiare non è reato.

Chissà quante volte, a ciascuno di noi, mentre scriviamo un testo al computer, sarà capitato di usare le funzioni 'taglia, copia, incolla' per comporre un testo.... un'operazione talmente comune, da semrbare banale. Ebbene, nel mese di febbraio ci ha lasciato proprio l'uomo che fu l'inventore pioneristico di questa funzione, ossia il brillante newyorkese Larry Gordon Tesler.
Parlare di Tesler significa fare un tuffo in un passato dell'informatica piuttosto lontano, fatto da appassionati visionari che cercavano di costruire le fondamenta del futuro del mondo digitale, anche se il mondo digitale in cui essi hanno vissuto era profondamente diverso dal nostro.
Era il mondo di gente come Brian Kerningham e Dennis Ritchie, i creatori, tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, del linguaggio di programmazione C; di Ken Thompson, che insieme allo stesso Ritchie creò, nello stesso periodo, il potente sistema operativo Unix all'interno dei laboratori Bell; di Douglas Enghebart, che mentre lavorava a Stanford, inventò il primo mouse nel 1967, che rivoluzionò l'interazione uomo - computer; era, anche il mondo di Larry Tesler, che, mentre lavorava nello storico PARC, ossia il centro ricerche Xerox di Palo Alto, inventò nel 1975 un word processor da usare su un costoso computer che si chiamava Alto. Tale word processor, di nome Gipsy, sfruttando l'interfaccia grafica pioneristica di Alto, forniva appunto la funzione di cui dicevamo, ossia di tagliare, copiare e incollare porzioni di testo, nonché anche funzioni di ricerca e sostituzione di parole. Occorre ricordare che, allora, i computer avevano un'interfaccia testuale e che, per modificare il testo, era necessario passare dalla modalità 'lettura' alla modalità 'inserimento', senza comunque poter modificare porzioni di testo, ma essendo costretti a riscrivere tutto dall'inizio. Tesler odiava le finestre 'modali', al punto che, sulla porta del suo ufficio aveva fatto mettere una targa con scritto 'no-modes'. Era un uomo schivo, ma dall'intelligenza creativa fuori dal comune, in un periodo epico della storia dell'informatica, in cui gli scambi di idee tra gli appassionati e lo spirito di emulazione crearono il contesto adeguato per gli sviluppi successivi. Tuttavia la Xerox, che considerava quello delle fotocopiatrici il suo core business, non fu in grado di sfruttare quelle invenzioni sul piano commerciale: se lo avesse fatto, probabilmente noi avremmo assistito ad una diversa storia dell'informatica.
Un giorno, nel 1979, un giovane manager visionario alla guida di una start-up creata tre anni prima (e in cui la Xerox aveva investito), avrebbe visitato il PARC e visto all'opera le invenzioni pioneristiche al suo interno, traendone ispirazione per i prodotti rivoluzionari del futuro: quel giovane si chiamava Steve Jobs e la start-up si chiamava Apple.
Insomma, volgendo lo sguardo a quell'epoca, dobbiamo essere riconoscenti da un lato, al gruppo di pionieri citati che, nel microcosmo magico della Silicon Valley, lavorarono a invenzioni rivoluzionarie che segnarono il progresso della scienza e della tecnica, dall'altro ad altre persone (gli Steve Jobs, i Bill Gates, e altri ancora) che lavorarono perché quelle invenzioni non restassero confinate nei centri di ricerca universitari, ma si traducessero poi in prodotti di uso quotidiano e accessibili a tutti. Un'epoca davvero pionieristica, in cui, come nell'antica Atene o nella Toscana del Rinascimento, era ritenuto normale che ognuno copiasse e migliorasse le idee degli altri in un circuito virtuoso di conoscenza.
E così, a proposito di copia, siamo ritornati all'invenzione principale di Tesler, cui va un grazie sentito dai milioni di utenti che ogni giorno nel mondo usano un word processor.
Addio Larry! Ti salutiamo come ti sarebbe piaciuto:
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Ferdinando G. Rotolo

domenica 15 marzo 2020

Riappropiarci di noi.

In queste giornate di riposo forzato dentro casa possiamo trovare l'occasione di fare qualche riflessione su ciò che ci sta accadendo e su quello che sentiamo. Questa emergenza che stiamo vivendo ci pone dinanzi a questioni molto importanti per il nostro futuro e sulle quali avremmo il dovere di interrogarci, senza retorica, ma anche senza finzioni. Innanzitutto, in situazioni critiche come questa, emerge l'azione di persone anonime, che hanno una vita normale, che magari vivono in città o in piccoli centri, ma che, divenuti improvvisamente protagonisit di un dramma più grande di loro, non si sono arresi, ma hanno dato fondo a tutte le risorse che avevano, umane, psicologiche, professionali, materiali per alleviare la sofferenza di chi, giovane o anziano, italiano o straniero, ha avuto la sfortuna di essere colpito dal maledetto virus: medici, infermieri, volontari. Per loro, evidentemente, ogni vita ha lo avuto lo stesso valore e la parola 'solidarietà' non è stata solo un bel vocabolo del dizionario. 
In secondo luogo, a noi chiusi in casa per ripararci dal virus si offre l'occasione per riappropriarci del tempo, di quel tempo che, nelle nostre frenetiche giornate 'normali', scorreva veloce e senza tregua; ecco, forse, a seguito di questo stop forzato, possiamo riscoprirne il prezioso valore e farlo davvero nostro, riempendolo con le scelte che preferiamo: leggere un buon libro (magari un buon testo classico o un manuale su qualsiasi argomento), ascoltare musica (vera e non ciarpame), guardare in TV qualche DVD contenente qualche bel film, scrivere qualcosa, mettere in ordine la casa, sentire al telefono i nostri cari lontani, persino guardare dalla finestra l'orizzonte e ammirarne la bellezza, cui ormai non facciamo più caso, presi come siamo da mille preoccupazioni, spesso indotte artificiosamente dall'esterno.
E, infine, questa situazione drammatica e imprevedibile ci fa riscoprire l'importanza di sentirci comunità, ossia un gruppo di persone legate tra loro da vincoli culturali, storici, affettivi e morali; un gruppo in cui il singolo non è, egoisticamente, misura di tutte le cose, ma in cui il comportamento di uno influisce sulla vita di tutti; in cui nessuno è un'isola solitaria, ma tutti siamo legati dalla comune appartenenza al genere umano, e, più in generale, a quella fratellanza universale che il poeta latino Terenzio definiva humanitas. Infatti, nonostante le favolette narrate in questi decenni dai cantori 'a comando' delle magnifiche sorti e progressive del neoliberismo globalizzato, che in questi anni, con la scusa della competizione permanente tra ogni uomo, ha deturpato la vita degli individui e la stessa natura, esiste ancora un legame profondo tra tutti gli individui, che li porta, in simili circostanze, a sentirsi fratelli, a riscoprire la comune humanitas che li lega, al di là delle differenze culturali, sociali o religiose. 
L'uomo non è necessariamente egoista e individualista; se spesso si comporta in modo tale, è perché il Sistema sociale lo educa, sin da giovanissimo, ad agire così, ossia nel modo che, guardacaso, è il più confacente alla perpetuazione del Sistema stesso. E, soprattutto, egli non è misura di tutte le cose, perché, piaccia o no, non è un dio. 
Se ci ricorderemo di tutto ciò, quando questa tempesta sarà passata, forse persino dal dolore arrecato da un flagello come Covid-19, potrà derivare qualche cosa di non negativo. 

Ferdinando Giuseppe Rotolo

sabato 28 dicembre 2019

Cosa attendersi nel 2020 dalle IT?

Cosa attendersi dal mondo della tecnologia dell'informazione nel 2020? Come senpre, verso la fine dell'anno gli analisti si cimentano in previsioni, supposizioni, scenari, e così via. Naturalmente, questo tipo di previsioni attira l'interesse degli investitori, che devono decidere in quale direzione indirizzare i loro capitali, ma anche quello del pubblico più vasto degli appassionati, incuriositi dagli sviluppi delle nuove tecnologie.

Un 2019 così così

Il mercato dei PC (desktop e notebook) è leggermente cresciuto nel 2019, ma in misura molto inferiore a quella che gli analisti si attendevano, sia a causa della difficoltà evidenziata dal maggior produttore mondiale di microchip a realizzare un numero di microprocessori sufficiente a soddisfare la richiesta dei produttori, sia a causa della tendenza, da parte degli utenti, ad allungare il ciclo di vita dei propri dispositivi, in assenza di veri fattori di innovazione dal lato hardware: oggi un PC portatile o uno smartphone fanno, più o meno, le stesse cose che facevano 5 anni fa, dunque perché spendere altri soldi per acquistarne uno nuovo e più costoso? Chissà, forse oggi l'utente non è poi così sprovveduto come comunemente si pensa.

E il 2020?

Probabilmente nel 2020 i produttori punteranno molto sugli utenti appassionati di videogiochi, che chiedono PC piuttosto ben carrozzati, per farvi girare i videogames di ultima generazione, solitamente alquanto avidi di risorse di sistema e di memoria. Tuttavia, si tratta di una nicchia di mercato, per quanto lucrosa. In verità, da utenti, vorremmo vedere anche qualcos'altro. Ad esempio, vorremmo assistere ad una diffusione rapida delle reti 5G, anche in zone dove la connettività di rete fa fatica a tenere il passo con i tempi. Infatti, oggi è fondamentale disporre di tecnologie di rete veloci ed affidabili e, soprattutto, accessibili a tutti: se vi saranno zone toccate marginalmente o non toccate affatto da questa tecnologia, lo sviluppo per le imprese in quelle zone resterà solo l'ennesimo capitolo del libro delle promesse non mantenute. Vorremmo anche vedere in vendita nei negozi degli smartphone, ormai divenuti potenti quasi come i PC, che non si assomigliassero tutti tra loro e che fossero più semplici da usare, anche per chi non è più giovanissimo. Riuscirà qualche produttore ad avere il coraggio di inventare e proporre qualche form factor innovativo, anche a costo di assumersi qualche rischio? Inoltre, vorremmo che produttori di PC offrissero al pubblico soluzioni sempre più 'portabili' e 'mobili'; oggi l'utente lavora sempre più in mobilità e dunque ha bisogno di ultrabook sempre più maneggevoli e potenti, ma che non costino un patrimonio, laddove invece pggi i produttori tendono a considerarli prodotti premium e a corredarli di listini altrettanto premium. Anche qui, avrà qualche produttore il coraggio di tentare strade innovative sul versante hardware, magari portando anche nei chip degli ultrabook la potenza e i bassi consumi già presenti nei chip degli smartphone? O meglio ancora, addirittura portando negli ultrabook gli stessi chip degli smartphone?
Forse, dalle parti di Cupertino, qualcuno ci sta già lavorando in gran segreto. Chi vivrà, vedrà... buon anno!
Ferdinando G. Rotolo

lunedì 4 novembre 2019

Quel marzo del 1998...

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Oggi, per i giovani utenti della rete, è normale utilizzare uno strumento digitale come un PC o un tablet o uno smartphone, per commettersi con il mondo intero. E nel fare questo, essi trovano assolutamente normale poter scegliere quale tipo di browser utilizzare: Firefox, Safari, Chrome, Opera, Edge, e così via. Eppure, non è sempre andata cosi.

La rete diventa... la Rete

Verso a metà degli anni '90 si assistette all'esplosione di Internet come strumento di comunicazione e persino come strumento commerciale grazie all'implementazione del world wide web; la possibilità di garantire la perfetta comunicazione tra i computer più diversi sparsi per il pianeta, aprì orizzonti assolutamente nuovi all'economia, all'informazione, all'editoria, all'industria. Naturalmente, per poter 'navigare' efficemente nella Rete era necessario avere il software adatto. In questo senso, nella seconda metà degli anni '90 erano due i programmi che si contendevano il mercato: lo storico Netscape Navigator, sviluppato dalla omonima società di Mountain View, e Internet Explorer, sviluppato dal colosso Microsoft.

La guerra dei browser

Navigator era stato per anni il browser di riferimento per il mercato, commercializzato a pagamento, e si era progressivamente arrichito di varie funzioni sempre più sofisticate; dall'altro lato Explorer aveva conosciuto una crescita continua dal momento in cui il gigante di Redmond, con una mossa astuta, aveva deciso di distribuirlo gratis integrandolo nel sistema operativo Windows 95. La grande diffusione di questo OS aveva fatto il resto, al punto che la quota di mercato di Navigator si era progressivamente ridotta. Infatti, perché mai gli utenti Windows avrebbero dovuto acquistare ed installare un browser diverso, quando ne avevano uno già installato e pronto all'uso sul loro sistema? Fu così che allora, dinanzi alle gravi perdite registrate nel 1997, Netscape (che era una società quotata in borsa) decise di distribuire nella primavera del 1998 Navigator in forma gratuita, in modo da poter competere con il rivale. Una mossa in qualche modo obbligata, che non colse affato di sorpresa il buon Bill Gates. Ma la mossa assolutamente inattesa e, in un certo senso, per quei tempi, rivoluzionaria, fu un'altra, ossia quella di distribuire liberamente il codice sorgente del programma a tutta la comunità degli sviluppatori.

La svolta

Per la prima volta, una società commerciale quotata in borsa (dunque non un'Università o un centro di ricerca), distribuivano il codice sorgente di un software importantissimo, rendendolo disponibile a tutta la comunità degli sviluppatori, affinchè fosse migliorato e sviluppato in nuove versioni. Molti commentatori, allora, giudicarono quella di Netscape una scelta dettata dalla disperazione, e, in parte, ciò era vero, specie se si considera che la 4.08 fu l'ultima versione del browser a vedere la luce come prodotto indipendente dal pacchetto Communicator, prima della resa definitva al monopolio di Microsoft nel 2002, anno in cui fu distribuita l'ultima versione del Communicator

Una nuova fenice...

Tuttavia, quella scelta coraggiosa e folle aprì una nuova era nella storia dell'informatica, in quanto mise gli utenti dinanzi alla possibilità di studiare un software dall'interno e di poterlo modificare liberamente: da lì sarebbero partiti gli studi e le ricerche che avrebbero poi, dopo qualche anno, condotto ad una nuova generazione di browser più moderni e, soprattutto, il cui motore di rendering HTML sarebbe stato open source. Quindi, a distanza di tempo, possiamo dire che quella scelta del marzo 1998, se da un lato fu il segnale annunciatore della sostanziale sconfitta di Netscape, dall'altro fu anche una scelta strategica che, incentivando la nascita di browser alternativi, nel corso degli anni, avrebbe nel lungo periodo corroso il predominio di Explorer stesso, che, sempre distribuito con licenza proprietaria chiusa, sarebbe passato da una quota del 70% del mercato nel 2009 ad una quota inferiore al 5% nel 2019. Insomma, Navigator moriva, ma dalle sue ceneri sarebbe rinato sotto altre forme

Morale?

E per noi utenti di oggi, quale messaggio può venire da questa vicenda, grazie alla quale il software ritornava quale era stato sue origini e fino a tutti gli anni '70, prima che nascesse il concetto di software proprietario? Forse che, in fondo, la condivisione e la libera circolazione della conoscenza, libera da barriere artificiose, rappresenta un potente motore di sviluppo e di progresso per tutta la comunità. Ne riparleremo.

Ferdinando G. Rotolo

sabato 10 dicembre 2016

Politica cercasi


Negli ultimi tempi, molti commentatori che si occupano di politica, osservando quanto accade nella società occidentale, lamentano spesso il fatto che gli elettori si siano fatti contagiare dal sentimento dell’antipolitica. I segnali, in tal senso, secondo costoro, non mancherebbero: dai rigurgiti nazionalistici (o presunti tali) in alcuni paesi del centro-europa al successo di movimenti anti-apparato in Italia o Spagna, dal referendum sulla Brexit fino alla clamorosa (apparentemente) elezione di zio Donald alla potente White House.
In realtà, dietro questi fenomeni, agiscono cause profonde differenti (anche se, in qualche modo legate), che hanno agito sottotraccia negli ultimi decenni e che ora vengono alla luce in modo più evidente, anche all’occhio di osservatori rimasti (finora) piuttosto distratti.
Se guardiamo più da vicino al nostro piccolo orticello italico, non dovremmo meravigliarci troppo di quanto è accaduto negli ultimi anni. Il successo elettorale di cui godono i movimenti sulla carta più nazionalisti o identitari non dipendono certo dal fatto che gli italiani siano improvvisamente divenuti xenofobi, ma dal semplice fatto che le classi medio-basse (che, dopo aver goduto, fino alla metà degli anni ’90 di un relativo benessere, hanno pagato sulla loro pelle i pesanti costi della  crisi economica e della globalizzazione dei mercati) vedono come fumo negli occhi quell’immigrazione di massa cui il nostro paese è stato colpevolmente esposto a seguito di errate scelte politiche internazionali, poiché essa ha innestato guerre tra poveri in una sorta di concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro: perché il datore di lavoro dovrebbe pagare di più, in mansioni a bassa qualificazione professionale, un lavoratore italiano, quando c’è dietro l’angolo un immigrato disposto a lavorare ad un terzo della paga? E perché lo stesso datore di lavoro non dovrebbe sentirsi libero di sbaraccare capannoni e macchinari collocati nel prospero (un tempo) nord-est e spostare la propria attività in Moldavia, Armenia o Qualunquistan, dato che lì il costo del lavoro è 5/6 volte più basso, non esistono leggi antinquinamento e persino il lavoro minorile è abbastanza tollerato? Chi dovrebbe impedire tutto ciò? In altri tempi, avremmo detto: ‘la Politica’. Già, ma ora essa dove sta? Buio in sala e cambio di scena.
Correva l’anno 1992. Poco dopo la fragorosa caduta dei regimi comunisti dell’est, l’Italia venne scossa dal ciclone della cosiddetta ‘Tangentopoli’, ossia un complesso di inchieste giudiziarie partite dalla Procura della Repubblica di Milano che sollevarono il coperchio su un vasto sistema di corruzione che alimentava gli apparati dei partiti (al governo e all’opposizione) attraverso una capillare rete di tangenti e mazzette. Inchiesta certamente meritoria e vista con favore da un’opinione pubblica che riteneva ormai non più tollerabile il perpetuarsi di quel sistema. Eppure, proprio allora qualcuno, nelle alte sfere, iniziò astutamente a soffiare sul vento del qualunquismo, raccontando ai cittadini che i partiti erano essi stessi fonte di sperperi e corruzione e che, dunque, la democrazia avrebbe funzionato anche meglio senza di essi. Queste si, che erano idee davvero demagogiche e populistiche, che, però, purtroppo, ebbero facile presa: tutta un’intera classe politica, composta dai partiti che avevano scritto la nostra Costituzione, venne spazzata via definitivamente e la politica (se vogliamo ancora chiamarla così), privata dei partiti organizzati, nel tempo è diventua terreno di caccia di qualche plutocrate che ha ben potuto far politica grazie alle sue ricchezze personali o di qualche consorteria organizzata di potere pronta a utilizzare la politica solo per fare affari.
Così, col passare del tempo, la politica nostrana (e non solo) è divenuta ancilla oeconomiae, al punto che oggi i mercati finanziari influenzano le scelte politiche persino del parlamento, di fatto divenuto agli occhi degli elettori come una specie di camera notarile chiamata a sancire decisioni prese altrove, sia che governi il centrodestra, sia che governi il centrosinistra. In questa situazione, le spinte denunciate dai media mainstream come ‘populistiche’ appaiono nient’altro che la, magari scomposta, ma naturale reazione della classe borghese medio-bassa dinanzi al pericolo della propria proletarizzazione o, addirittura, estinzione. Insomma, è vero, come dicono i media, che ci sarebbe bisogno di più Politica e Democrazia, ma questa lamentela, posta in bocca a coloro che hanno fatto da portavoce a chi ha demagogicamente contribuito a determinare questo pasticcio, risuona viziata da un po’ di ipocrisia.
"C’è ancora tempo per tornare indietro, Sherlock?"
 "Temo di no, Watson."


Ferdinando G. Rotolo (dicembre 2016)

lunedì 12 settembre 2016

Il Vento... tiene?


In occasione del recente (e un po’ improvvisato) vertice tra Renzi, Hollande e la Merkel tenutosi al largo dell’isola di Ventotene, da parte di certa stampa si è detto, un po’ retoricamente, che i tre leader dei rispettivi paesi intendevano ritrovarsi per recuperare lo spirito dei padri ispiratori del Manifesto di Ventotene, che da alcuni è ritenuto uno dei documenti fondanti dell’Unione Europea.
In sintesi, alcuni intellettuali e militanti di opposizione, negli anni tra il 1941 e il 1944 vennero inviati al confino nell’isola di Ventotene dal regime fascista e li, alcuni di loro, collaborarono alla stesura del famoso Manifesto.
Si tratta di un documento, articolato in quattro sezioni, nel quale gli autori, dopo aver analizzato le cause storiche e sociali che (a loro parere) avevano portato alla nascita dei regimi totalitari in Europa, prospettavano per il futuro la creazione di un super stato europeo che fosse in grado si superare gli antichi nazionalismi che avevano lacerato l’Europa in quegli anni.
Ora, considerate le diverse sensibilità degli autori, era inevitabile che nel documento comparissero alcune contraddizioni, che emergono, in particolare, sia nella parte in cui si analizza la nascita dei totalitarismi dal seno stesso delle democrazie liberali dell’Ottocento (ad esempio, non spiegando chiaramente come mai lo stato-nazione totalitario in Italia e Germania si sia differenziato dallo stato liberale di stampo anglosassone), sia nella parte in cui non vengono chiaramente definiti i contorni di questo superstato e non si spiega chiaramente perché mai esso dovrebbe essere immune dai totalitarismi del passato (e di quali garanzie di libertà i suoi cittadini dovrebbero fruire).
Tuttavia, quando si fa riferimento ad un documento e lo si ritiene addirittura, ad opera di certa propaganda, uno dei testi fondanti dell’ideale europeista, bisognerebbe leggerlo interamente in tutte le sue parti, poiché le memorie culturali non possono essere prese a porzioni, come fette di torta, ma vanno inquadrate globalmente nel loro contesto storico. E allora, ecco che, per i fanatici della tecnocrazia ultraliberista che regna a Bruxelles e che mira a dettare le agende ai governi del continente, non mancherebbero le sorprese nel documento. Un esempio? Proviamo a leggere alcuni estratti della parte III del Manifesto. Dopo aver affermato che la futura rivoluzione europea dovrà avere un carattere sostanzialmente socialista, il documento dice:

Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.

In sostanza, si afferma che le forze economiche non sono potenze di un cieco destino, ma possono e devono essere governate e guidate in vista di un interesse comune ben più vasto. Il libero mercato, da solo, non crea benessere diffuso, ma anzi accresce le disuguaglianze.
Poi si aggiunge, con maggiore chiarezza:

Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente…vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.

Si ribadisce il concetto che la libera iniziativa economica rappresenta un fattore di progresso, ma si sottolinea, al tempo stesso, che essa deve esplicarsi all’interno di argini robusti e ben definiti, sempre in funzione dell’interesse collettivo.
E ancora:

non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti.

Senti, senti: si afferma il principio che lo Stato dovrebbe nazionalizzare le industrie di interesse strategico (energia elettrica, ecc.) o quelle che, per le loro dimensioni, sono in condizione di esercitare un virtuale ricatto sulla politica (risorse energetiche, banche, armamenti, ecc). Insomma, si riafferma il principio che lo Stato dovrebbe intervenire nell’economia, per eliminare o ridurre gli effetti distorti dello sviluppo capitalistico.
E infine:

La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;

Vanno previsti sussidi per coloro che, per varie ragioni, sono fuori dal mercato del lavoro, senza ricorrere a forme pseudo-assistenziali che non risolvono alla radice i problemi delle disuguaglianze sociali e civili.
Insomma, siamo piuttosto lontani dagli assiomi dell’odierno ultraliberismo, secondo i quali il sistema economico capitalistico globalizzato, ormai completamente svincolato da qualsiasi controllo da parte della politica, sarebbe in grado di garantire benessere, prosperità e felicità a tutti i cittadini, trasformati, in realtà, in semplici consumatori, zelantemente educati dalla propaganda mediatica a identificare la felicità nel puro e semplice possesso di beni di consumo (e del denaro necessario a procurarseli).
Ma la domanda vera da porsi, mentre vanno in scena delle fiction come quella allestita qualche settimana fa a Ventotene, è: esistono ancora intellettuali che, da posizioni socialiste,  siano capaci di lavorare alla costruzione di una cultura che offra una critica all’assetto capitalistico globalizzato dell’attuale società occidentale?

Ferdinando G. Rotolo (settembre 2016)

sabato 27 febbraio 2016

Il rito, il riso, la rosa: Guglielmo e Adso.


In un precedente post abbiamo discusso di come nel romanzo Il nome della rosa, le figure di Guglielmo di Baskerville e di Jorge da Burgos rappresentassero nella narrazione due modelli molto diversi di intendere ed interpretare la circolazione del sapere. Naturalmente, però, il romanzo di Eco, per la sua complessità, si presta ad offrire molteplici chiavi di lettura.
Ad un primo livello, esso offre al lettore gli ingredienti tipici del romanzo giallo: una serie misteriosa di delitti, avvenuti in un’abbazia medievale, ed un frate investigatore chiamato a risolverli. Il mistero, alla fine, verrà svelato e il colpevole verrà scoperto, anche se costui trascinerà nella rovina l’intera abbazia.
Ad un secondo livello, il testo offre al lettore gli elementi tipici del romanzo storico: la descrizione meticolosa della vita quotidiana in un’abbazia medievale e i contrasti esistenti tra l’ordine francescano, che predica la povertà, ed una Chiesa romana attaccata invece ai lussi e alle ricchezze e pronta a bollare di eresia chiunque osi contestare il suo potere politico. Non mancheranno i tentativi di dialogo, ma saranno destinati al fallimento.
Ad un terzo livello, l’opera offre al lettore la struttura tipica del romanzo di formazione: la figura di un giovane frate, Adso da Melk, stretto collaboratore di Guglielmo, e del suo faticoso cammino di crescita nella fede e nella conoscenza. Egli considera Guglielmo una specie di tutor, ma arriverà, alla fine della sua esistenza, a conclusioni morali e filosofiche piuttosto divergenti da quelle del maestro.
Ad un quarto livello, il romanzo offre al lettore più colto le caratteristiche tipiche del romanzo filosofico, laddove esso discute, più o meno apertamente, del problema della conoscenza e dei segni che l’uomo adopera per decifrare il mondo. Ecco, tale aspetto dell’opera, seppur piuttosto ostico, rappresenta forse quello più importante, nell’ottica dell’autore, che è stato un illustre semiologo.
Quello dei segni si pone come problema fondamentale sin dall’inizio del racconto, dal momento che Guglielmo cerca di scoprire le motivazioni e l’autore dei delitti attraverso dei ‘segni’ che egli ritiene siano stati deliberatamente lasciati dall’assassino, quasi come una specie di ‘firma’. Seguendo il proprio ragionamento, Guglielmo arriva, sì, a scoprire l’assassino, ossia Jorge, ma dovrà riconoscere che il suo ragionamento logico non è esatto, in quanto solo alcuni dei ‘segni’ da lui individuati sono stati lasciati sulla scena dei delitti da Jorge, mentre altri sono frutto di casualità. Allora, alla fine del racconto, mentre l’Edificio dell’abbazia viene divorato dall’incendio scatenato da Jorge nel suo delirio, Guglielmo riflette amaramente su quanto è accaduto e sulla sua incapacità di interpretare correttamente il senso degli avvenimenti che lo hanno visto coinvolto.
Ecco, allora, che il dialogo finale tra lui e Adso riveste la massima importanza, per le sue implicazioni ideologiche e filosofiche. Guglielmo si duole di non aver compreso bene la scia degli avvenimenti accaduti nei suoi meccanismi di causa ed effetto ed arriva alla dolente conclusione di aver ‘letto’ un ordine delle cose, laddove un ordine, in realtà, non c’è. Dunque egli arriva ad affermare che non esiste un ordine predefinito nel cosmo, in quanto questo limiterebbe la libera volontà e onnipotenza di Dio.
Per capire questo concetto, occorre ricordare che nel Medioevo fu molto vivo tra i teologi il dibattito sull’onnipotenza divina, che essi distinguevano in potestas ordinata e potestas absoluta. Semplificando molto, potremmo dire che la potestas ordinata è quella con cui Dio regola il cosmo attraverso le leggi che Egli stesso ha fissato ab aeterno, mentre la potestas absoluta è una sorta di ‘riserva straordinaria’ di potere, grazie alla quale Dio potrebbe intervenire nel cosmo, se lo volesse, anche andando al di là delle leggi che Egli stesso ha creato.
Ora, occorre tener presente che l’autore, nel delineare la figura di Guglielmo, si è ispirato a quella del famoso pensatore medievale Guglielmo di Ockham, che nei suoi scritti analizzò l’argomento in modo originale, collocando la potestas absoluta in una fase precedente la creazione e la potestas ordinata in quella successiva: ossia, Dio avrebbe potuto esercitare la sua libera volontà in qualunque modo, creando mondi anche profondamente diversi dal nostro, mentre con la creazione ha dato concretamente leggi al cosmo per mezzo della potestas ordinata.
Tornando al Guglielmo del romanzo, come detto, egli arriva alla conclusione che il cosmo, seppur potenzialmente strutturabile, non appare mai completamente strutturato, perché un rigido ordine del cosmo, come detto, limiterebbe l’assoluta liberta e onnipotenza di Dio: dunque non esiste un ordine nell’universo. A questo punto Adso, sconvolto, osa arrivare ad una conclusione teologica ancor più ardita:

“Ma come può esistere un essere necessario totalmente intessuto di possibile? Che differenza c’è allora tra Dio e il caos primigenio? Affermare l’assoluta onnipotenza di Dio e la sua assoluta disponibilità rispetto alle sue stesse scelte, non equivale a dimostrare che Dio non esiste?”

A queste drammatiche domande Guglielmo non risponde, ma ribatte con un’altra domanda:

“Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?”

Insomma, se Dio potesse davvero tutto e manifestasse la sua potenza in modo assoluto, anche al di là delle leggi presenti nel cosmo, non avremmo più un ordine nel creato, ma un guazzabuglio informe di aventi casuali e di possibilità che accadono per il solo fatto che possono accadere, insomma un Caos, all’interno del quale Dio non avrebbe più, in realtà, alcuna funzione. Se così fosse, però, anche la scienza ne uscirebbe con le ossa rotte, in quanto non vi sarebbe nemmeno possibilità di trasmettere il sapere, dal momento che, nel caos generale, venendo meno qualunque criterio di verità oggettiva, ogni proposizione potrebbe essere ugualmente vera o falsa e ogni fenomeno potrebbe essere reale o fittizio. Per tale ragione, Guglielmo non se la sente di spingersi fino allo scetticismo nichilista cui approda il suo discepolo, che nelle pagine finali del romanzo, appressandosi il momento della morte, sembra identificare il Divino con il Nulla.
E’ stato scritto nel corso degli anni che questo romanzo rappresenterebbe un’apologia del relativismo ateo moderno e, certamente, questa, potrebbe essere una sensata chiave di lettura. Attenzione, però! Lo stesso autore ci ha più volte ricordato che un testo narrativo è una macchina costruita per generare interpretazioni, che possono anche andare al di là delle intenzioni originarie dell’autore, il quale, non senza ironia, ha spesso affermato nei suoi scritti che immagini, metafore, segni, sono tutti elementi importanti, ma non vanno presi troppo sul serio; e non mi meraviglierei se, in qualche angolo del cosmo, il Prof. Eco, leggendo queste righe, pensasse sogghignando: “Ecco un altro che c’è cascato!”

Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2016)