sabato 10 dicembre 2016

Politica cercasi


Negli ultimi tempi, molti commentatori che si occupano di politica, osservando quanto accade nella società occidentale, lamentano spesso il fatto che gli elettori si siano fatti contagiare dal sentimento dell’antipolitica. I segnali, in tal senso, secondo costoro, non mancherebbero: dai rigurgiti nazionalistici (o presunti tali) in alcuni paesi del centro-europa al successo di movimenti anti-apparato in Italia o Spagna, dal referendum sulla Brexit fino alla clamorosa (apparentemente) elezione di zio Donald alla potente White House.
In realtà, dietro questi fenomeni, agiscono cause profonde differenti (anche se, in qualche modo legate), che hanno agito sottotraccia negli ultimi decenni e che ora vengono alla luce in modo più evidente, anche all’occhio di osservatori rimasti (finora) piuttosto distratti.
Se guardiamo più da vicino al nostro piccolo orticello italico, non dovremmo meravigliarci troppo di quanto è accaduto negli ultimi anni. Il successo elettorale di cui godono i movimenti sulla carta più nazionalisti o identitari non dipendono certo dal fatto che gli italiani siano improvvisamente divenuti xenofobi, ma dal semplice fatto che le classi medio-basse (che, dopo aver goduto, fino alla metà degli anni ’90 di un relativo benessere, hanno pagato sulla loro pelle i pesanti costi della  crisi economica e della globalizzazione dei mercati) vedono come fumo negli occhi quell’immigrazione di massa cui il nostro paese è stato colpevolmente esposto a seguito di errate scelte politiche internazionali, poiché essa ha innestato guerre tra poveri in una sorta di concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro: perché il datore di lavoro dovrebbe pagare di più, in mansioni a bassa qualificazione professionale, un lavoratore italiano, quando c’è dietro l’angolo un immigrato disposto a lavorare ad un terzo della paga? E perché lo stesso datore di lavoro non dovrebbe sentirsi libero di sbaraccare capannoni e macchinari collocati nel prospero (un tempo) nord-est e spostare la propria attività in Moldavia, Armenia o Qualunquistan, dato che lì il costo del lavoro è 5/6 volte più basso, non esistono leggi antinquinamento e persino il lavoro minorile è abbastanza tollerato? Chi dovrebbe impedire tutto ciò? In altri tempi, avremmo detto: ‘la Politica’. Già, ma ora essa dove sta? Buio in sala e cambio di scena.
Correva l’anno 1992. Poco dopo la fragorosa caduta dei regimi comunisti dell’est, l’Italia venne scossa dal ciclone della cosiddetta ‘Tangentopoli’, ossia un complesso di inchieste giudiziarie partite dalla Procura della Repubblica di Milano che sollevarono il coperchio su un vasto sistema di corruzione che alimentava gli apparati dei partiti (al governo e all’opposizione) attraverso una capillare rete di tangenti e mazzette. Inchiesta certamente meritoria e vista con favore da un’opinione pubblica che riteneva ormai non più tollerabile il perpetuarsi di quel sistema. Eppure, proprio allora qualcuno, nelle alte sfere, iniziò astutamente a soffiare sul vento del qualunquismo, raccontando ai cittadini che i partiti erano essi stessi fonte di sperperi e corruzione e che, dunque, la democrazia avrebbe funzionato anche meglio senza di essi. Queste si, che erano idee davvero demagogiche e populistiche, che, però, purtroppo, ebbero facile presa: tutta un’intera classe politica, composta dai partiti che avevano scritto la nostra Costituzione, venne spazzata via definitivamente e la politica (se vogliamo ancora chiamarla così), privata dei partiti organizzati, nel tempo è diventua terreno di caccia di qualche plutocrate che ha ben potuto far politica grazie alle sue ricchezze personali o di qualche consorteria organizzata di potere pronta a utilizzare la politica solo per fare affari.
Così, col passare del tempo, la politica nostrana (e non solo) è divenuta ancilla oeconomiae, al punto che oggi i mercati finanziari influenzano le scelte politiche persino del parlamento, di fatto divenuto agli occhi degli elettori come una specie di camera notarile chiamata a sancire decisioni prese altrove, sia che governi il centrodestra, sia che governi il centrosinistra. In questa situazione, le spinte denunciate dai media mainstream come ‘populistiche’ appaiono nient’altro che la, magari scomposta, ma naturale reazione della classe borghese medio-bassa dinanzi al pericolo della propria proletarizzazione o, addirittura, estinzione. Insomma, è vero, come dicono i media, che ci sarebbe bisogno di più Politica e Democrazia, ma questa lamentela, posta in bocca a coloro che hanno fatto da portavoce a chi ha demagogicamente contribuito a determinare questo pasticcio, risuona viziata da un po’ di ipocrisia.
"C’è ancora tempo per tornare indietro, Sherlock?"
 "Temo di no, Watson."


Ferdinando G. Rotolo (dicembre 2016)

lunedì 12 settembre 2016

Il Vento... tiene?


In occasione del recente (e un po’ improvvisato) vertice tra Renzi, Hollande e la Merkel tenutosi al largo dell’isola di Ventotene, da parte di certa stampa si è detto, un po’ retoricamente, che i tre leader dei rispettivi paesi intendevano ritrovarsi per recuperare lo spirito dei padri ispiratori del Manifesto di Ventotene, che da alcuni è ritenuto uno dei documenti fondanti dell’Unione Europea.
In sintesi, alcuni intellettuali e militanti di opposizione, negli anni tra il 1941 e il 1944 vennero inviati al confino nell’isola di Ventotene dal regime fascista e li, alcuni di loro, collaborarono alla stesura del famoso Manifesto.
Si tratta di un documento, articolato in quattro sezioni, nel quale gli autori, dopo aver analizzato le cause storiche e sociali che (a loro parere) avevano portato alla nascita dei regimi totalitari in Europa, prospettavano per il futuro la creazione di un super stato europeo che fosse in grado si superare gli antichi nazionalismi che avevano lacerato l’Europa in quegli anni.
Ora, considerate le diverse sensibilità degli autori, era inevitabile che nel documento comparissero alcune contraddizioni, che emergono, in particolare, sia nella parte in cui si analizza la nascita dei totalitarismi dal seno stesso delle democrazie liberali dell’Ottocento (ad esempio, non spiegando chiaramente come mai lo stato-nazione totalitario in Italia e Germania si sia differenziato dallo stato liberale di stampo anglosassone), sia nella parte in cui non vengono chiaramente definiti i contorni di questo superstato e non si spiega chiaramente perché mai esso dovrebbe essere immune dai totalitarismi del passato (e di quali garanzie di libertà i suoi cittadini dovrebbero fruire).
Tuttavia, quando si fa riferimento ad un documento e lo si ritiene addirittura, ad opera di certa propaganda, uno dei testi fondanti dell’ideale europeista, bisognerebbe leggerlo interamente in tutte le sue parti, poiché le memorie culturali non possono essere prese a porzioni, come fette di torta, ma vanno inquadrate globalmente nel loro contesto storico. E allora, ecco che, per i fanatici della tecnocrazia ultraliberista che regna a Bruxelles e che mira a dettare le agende ai governi del continente, non mancherebbero le sorprese nel documento. Un esempio? Proviamo a leggere alcuni estratti della parte III del Manifesto. Dopo aver affermato che la futura rivoluzione europea dovrà avere un carattere sostanzialmente socialista, il documento dice:

Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.

In sostanza, si afferma che le forze economiche non sono potenze di un cieco destino, ma possono e devono essere governate e guidate in vista di un interesse comune ben più vasto. Il libero mercato, da solo, non crea benessere diffuso, ma anzi accresce le disuguaglianze.
Poi si aggiunge, con maggiore chiarezza:

Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente…vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.

Si ribadisce il concetto che la libera iniziativa economica rappresenta un fattore di progresso, ma si sottolinea, al tempo stesso, che essa deve esplicarsi all’interno di argini robusti e ben definiti, sempre in funzione dell’interesse collettivo.
E ancora:

non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti.

Senti, senti: si afferma il principio che lo Stato dovrebbe nazionalizzare le industrie di interesse strategico (energia elettrica, ecc.) o quelle che, per le loro dimensioni, sono in condizione di esercitare un virtuale ricatto sulla politica (risorse energetiche, banche, armamenti, ecc). Insomma, si riafferma il principio che lo Stato dovrebbe intervenire nell’economia, per eliminare o ridurre gli effetti distorti dello sviluppo capitalistico.
E infine:

La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;

Vanno previsti sussidi per coloro che, per varie ragioni, sono fuori dal mercato del lavoro, senza ricorrere a forme pseudo-assistenziali che non risolvono alla radice i problemi delle disuguaglianze sociali e civili.
Insomma, siamo piuttosto lontani dagli assiomi dell’odierno ultraliberismo, secondo i quali il sistema economico capitalistico globalizzato, ormai completamente svincolato da qualsiasi controllo da parte della politica, sarebbe in grado di garantire benessere, prosperità e felicità a tutti i cittadini, trasformati, in realtà, in semplici consumatori, zelantemente educati dalla propaganda mediatica a identificare la felicità nel puro e semplice possesso di beni di consumo (e del denaro necessario a procurarseli).
Ma la domanda vera da porsi, mentre vanno in scena delle fiction come quella allestita qualche settimana fa a Ventotene, è: esistono ancora intellettuali che, da posizioni socialiste,  siano capaci di lavorare alla costruzione di una cultura che offra una critica all’assetto capitalistico globalizzato dell’attuale società occidentale?

Ferdinando G. Rotolo (settembre 2016)

sabato 27 febbraio 2016

Il rito, il riso, la rosa: Guglielmo e Adso.


In un precedente post abbiamo discusso di come nel romanzo Il nome della rosa, le figure di Guglielmo di Baskerville e di Jorge da Burgos rappresentassero nella narrazione due modelli molto diversi di intendere ed interpretare la circolazione del sapere. Naturalmente, però, il romanzo di Eco, per la sua complessità, si presta ad offrire molteplici chiavi di lettura.
Ad un primo livello, esso offre al lettore gli ingredienti tipici del romanzo giallo: una serie misteriosa di delitti, avvenuti in un’abbazia medievale, ed un frate investigatore chiamato a risolverli. Il mistero, alla fine, verrà svelato e il colpevole verrà scoperto, anche se costui trascinerà nella rovina l’intera abbazia.
Ad un secondo livello, il testo offre al lettore gli elementi tipici del romanzo storico: la descrizione meticolosa della vita quotidiana in un’abbazia medievale e i contrasti esistenti tra l’ordine francescano, che predica la povertà, ed una Chiesa romana attaccata invece ai lussi e alle ricchezze e pronta a bollare di eresia chiunque osi contestare il suo potere politico. Non mancheranno i tentativi di dialogo, ma saranno destinati al fallimento.
Ad un terzo livello, l’opera offre al lettore la struttura tipica del romanzo di formazione: la figura di un giovane frate, Adso da Melk, stretto collaboratore di Guglielmo, e del suo faticoso cammino di crescita nella fede e nella conoscenza. Egli considera Guglielmo una specie di tutor, ma arriverà, alla fine della sua esistenza, a conclusioni morali e filosofiche piuttosto divergenti da quelle del maestro.
Ad un quarto livello, il romanzo offre al lettore più colto le caratteristiche tipiche del romanzo filosofico, laddove esso discute, più o meno apertamente, del problema della conoscenza e dei segni che l’uomo adopera per decifrare il mondo. Ecco, tale aspetto dell’opera, seppur piuttosto ostico, rappresenta forse quello più importante, nell’ottica dell’autore, che è stato un illustre semiologo.
Quello dei segni si pone come problema fondamentale sin dall’inizio del racconto, dal momento che Guglielmo cerca di scoprire le motivazioni e l’autore dei delitti attraverso dei ‘segni’ che egli ritiene siano stati deliberatamente lasciati dall’assassino, quasi come una specie di ‘firma’. Seguendo il proprio ragionamento, Guglielmo arriva, sì, a scoprire l’assassino, ossia Jorge, ma dovrà riconoscere che il suo ragionamento logico non è esatto, in quanto solo alcuni dei ‘segni’ da lui individuati sono stati lasciati sulla scena dei delitti da Jorge, mentre altri sono frutto di casualità. Allora, alla fine del racconto, mentre l’Edificio dell’abbazia viene divorato dall’incendio scatenato da Jorge nel suo delirio, Guglielmo riflette amaramente su quanto è accaduto e sulla sua incapacità di interpretare correttamente il senso degli avvenimenti che lo hanno visto coinvolto.
Ecco, allora, che il dialogo finale tra lui e Adso riveste la massima importanza, per le sue implicazioni ideologiche e filosofiche. Guglielmo si duole di non aver compreso bene la scia degli avvenimenti accaduti nei suoi meccanismi di causa ed effetto ed arriva alla dolente conclusione di aver ‘letto’ un ordine delle cose, laddove un ordine, in realtà, non c’è. Dunque egli arriva ad affermare che non esiste un ordine predefinito nel cosmo, in quanto questo limiterebbe la libera volontà e onnipotenza di Dio.
Per capire questo concetto, occorre ricordare che nel Medioevo fu molto vivo tra i teologi il dibattito sull’onnipotenza divina, che essi distinguevano in potestas ordinata e potestas absoluta. Semplificando molto, potremmo dire che la potestas ordinata è quella con cui Dio regola il cosmo attraverso le leggi che Egli stesso ha fissato ab aeterno, mentre la potestas absoluta è una sorta di ‘riserva straordinaria’ di potere, grazie alla quale Dio potrebbe intervenire nel cosmo, se lo volesse, anche andando al di là delle leggi che Egli stesso ha creato.
Ora, occorre tener presente che l’autore, nel delineare la figura di Guglielmo, si è ispirato a quella del famoso pensatore medievale Guglielmo di Ockham, che nei suoi scritti analizzò l’argomento in modo originale, collocando la potestas absoluta in una fase precedente la creazione e la potestas ordinata in quella successiva: ossia, Dio avrebbe potuto esercitare la sua libera volontà in qualunque modo, creando mondi anche profondamente diversi dal nostro, mentre con la creazione ha dato concretamente leggi al cosmo per mezzo della potestas ordinata.
Tornando al Guglielmo del romanzo, come detto, egli arriva alla conclusione che il cosmo, seppur potenzialmente strutturabile, non appare mai completamente strutturato, perché un rigido ordine del cosmo, come detto, limiterebbe l’assoluta liberta e onnipotenza di Dio: dunque non esiste un ordine nell’universo. A questo punto Adso, sconvolto, osa arrivare ad una conclusione teologica ancor più ardita:

“Ma come può esistere un essere necessario totalmente intessuto di possibile? Che differenza c’è allora tra Dio e il caos primigenio? Affermare l’assoluta onnipotenza di Dio e la sua assoluta disponibilità rispetto alle sue stesse scelte, non equivale a dimostrare che Dio non esiste?”

A queste drammatiche domande Guglielmo non risponde, ma ribatte con un’altra domanda:

“Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?”

Insomma, se Dio potesse davvero tutto e manifestasse la sua potenza in modo assoluto, anche al di là delle leggi presenti nel cosmo, non avremmo più un ordine nel creato, ma un guazzabuglio informe di aventi casuali e di possibilità che accadono per il solo fatto che possono accadere, insomma un Caos, all’interno del quale Dio non avrebbe più, in realtà, alcuna funzione. Se così fosse, però, anche la scienza ne uscirebbe con le ossa rotte, in quanto non vi sarebbe nemmeno possibilità di trasmettere il sapere, dal momento che, nel caos generale, venendo meno qualunque criterio di verità oggettiva, ogni proposizione potrebbe essere ugualmente vera o falsa e ogni fenomeno potrebbe essere reale o fittizio. Per tale ragione, Guglielmo non se la sente di spingersi fino allo scetticismo nichilista cui approda il suo discepolo, che nelle pagine finali del romanzo, appressandosi il momento della morte, sembra identificare il Divino con il Nulla.
E’ stato scritto nel corso degli anni che questo romanzo rappresenterebbe un’apologia del relativismo ateo moderno e, certamente, questa, potrebbe essere una sensata chiave di lettura. Attenzione, però! Lo stesso autore ci ha più volte ricordato che un testo narrativo è una macchina costruita per generare interpretazioni, che possono anche andare al di là delle intenzioni originarie dell’autore, il quale, non senza ironia, ha spesso affermato nei suoi scritti che immagini, metafore, segni, sono tutti elementi importanti, ma non vanno presi troppo sul serio; e non mi meraviglierei se, in qualche angolo del cosmo, il Prof. Eco, leggendo queste righe, pensasse sogghignando: “Ecco un altro che c’è cascato!”

Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2016)

domenica 21 febbraio 2016

Il rito, il riso, la rosa: Jorge e Guglielmo.


Molti decenni or sono, tra gli studiosi di letteratura divampò una polemica riguardo al rapporto tra letteratura e società: mentre i critici di ispirazione marxista sostenevano che la letteratura, e, più in generale, tutta la cultura fossero delle sovrastrutture ideologiche tali da riflettere i rapporti sociali presenti all’interno di un determinato momento storico, i critici di ispirazione neoidealista rifiutavano questa visione e sostenevano che, al contrario, i fenomeni artistici non fossero affatto condizionati dai mutamenti sociali, al punto che essi non consideravano la possibilità di comporre una storia della letteratura o dell’arte che studiasse lo stretto rapporto tra cultura e società, ammettendo, al massimo, che si potesse scrivere una ‘storia della cultura’ in sé e per sé. 
In realtà, appare difficile negare che l’evoluzione della società abbia condizionato l’evoluzione della cultura, se non altro perché ne ha condizionato le modalità di fruizione. Un tempo, la cultura circolava attraverso l’ambiente ristretto delle corti dei Principi o dei Sovrani, che, da buoni mecenati interessati, ospitavano all’interno delle loro corti intellettuali di varia provenienza (e di vario valore), i quali, in cambio della possibilità di comporre e di esprimere la loro arte, non rinunciavano ad omaggiare il principe che generosamente li ospitava: Virgilio, Petrarca, Ariosto, per citarne alcuni, furono poeti cortigiani. Dopo il passaggio dalla società aristocratica a quella borghese e la nascita dell’industria editoriale, la letteratura cortigiana si è andata esaurendo, così che gli scrittori hanno potuto, in modo relativamente autonomo, iniziare a comporre le loro opere per un pubblico più ampio e articolato. Nel dopoguerra, con l’avvento della società industriale di massa, anche il libro è divenuto un prodotto esso stesso di massa, soggetto alle mode e al marketing pubblicitario allo stesso modo di altri beni di consumo, come le automobili e le lavatrici.
Al di là dell’evoluzione storica, il vero problema è costituito, però, dalla funzione sociale che si è attribuita alla cultura, con particolare riferimento alla letteratura. In tal caso, al di là del variare dei rapporti sociali ed economici, al di là del nascere e morire delle correnti letterarie, al di là del mutare dei gusti del pubblico, potremmo dire che le posizioni prevalenti sono state essenzialmente due: da una parte vi sono stati coloro che hanno ritenuto la letteratura e, più in generale, la cultura come un fattore di progresso sociale, motivo per cui essi si sono battuti per una sua diffusione progressivamente (avverbio non casuale) sempre più ampia, in modo da consentire a strati sempre maggiori della popolazione di crescere nel sapere e, armati di esso, cercare e trovare una collocazione adeguata nel mondo; dall’altra parte della barricata si sono collocati coloro che hanno sempre considerato la letteratura e, più in generale, la cultura come uno strumento di potere e di dominio sulle masse, ragion per cui si sono battuti (con mezzi leciti e non), perché la sua diffusione non andasse al di là di una ristretta elite sociale, che, per mezzo di questo sapere gelosamente conservato, potesse mantenere la propria posizione di dominio sul resto della società.
E qui mi sia consentito offrire una riflessione che è anche un omaggio ad compianto un grande intellettuale, Umberto Eco, che nel suo romanzo più famoso, Il nome della rosa, caleidoscopico capolavoro letterario nel quale coesistono insieme più generi letterari e molteplici livelli di significato, affronta, tra gli altri temi, con grande efficacia narrativa proprio questo argomento. Nella parte conclusiva del romanzo, il momento di spannung (ossia di massima tensione narrativa) è dato proprio dal memorabile ‘duello’ intellettuale tra Guglielmo di Baskerville e Jorge. Guglielmo, dopo aver indagato sui misteriosi delitti avvenuti all’interno dell’abbazia, interpretando i segni lasciati dall’assassino, è arrivato alla conclusione che sia stato Jorge ad uccidere i vari frati, per impedire loro di accostasi alla lettura del II libro dell’Arte Poetica di Aristotele, quello dedicato alla commedia; dal canto suo, Jorge non solo non nega di essere lui l’autore di tali nefandi crimini, ma quasi si vanta di aver compiuto una missione benemerita, perché non può tollerare che il maestro Aristotele, ammiratissimo nel Medioevo, col suo testo abbia fornito ai lettori gli strumenti intellettuali per ridere di tutto, anche della verità.
Appare evidente che, nella scrittura di Eco, i due personaggi rappresentano i campioni di quelle due tendenze che abbiamo sopra descritto: entrambi (e forse anche l’autore) in fondo sono convinti che il sapere sia una irta montagna, sulla cui sommità più alta solo pochi sono in grado di salire. Detto questo, tra i due esiste, tuttavia, una non trascurabile differenza di opinione sulla funzione sociale che il sapere dovrebbe assumere: per Guglielmo, la cultura è strumento di perfezionamento interiore e di progresso sociale, dunque nessuno dovrebbe porre barriere artificiose alla sua piena fruizione da parte di tutti, anche a costo di far circolare teorie o modelli culturali ‘scomodi’ o ‘non ortodossi’ per la mentalità corrente;  Jorge, invece, è il paladino di una cultura ristretta alla classe dominante ed è disposto a tutto, pur di impedire che essa goda di una diffusione più ampia, perché teme che essa possa fornire alla masse gli strumenti cognitivi per mettere in discussione l’autorità, ogni autorità, spirituale e temporale. Per lui, finché le masse resteranno nel vuoto culturale, esse potranno magari imprecare contro i loro padroni, ma non potranno mai sostituirsi ad essi, perché saranno condannate alla sconfitta dalla loro stessa ignoranza.
E nel finale apocalittico del romanzo, descrivendo l’incendio che distrugge l’Edificio, l’autore ci ammonisce anche con una potente metafora sulla rovina che incombe su qualunque società che abbia la presunzione di escludere larghe fette della popolazione dalla fruizione del sapere, della cultura, dell’arte, poiché queste sono splendida espressione di quella scintilla di Luce divina creatrice che l’intelligenza umana possiede dentro di sé, senza della quale, piaccia o no, gli esseri umani sono destinati a vivere come bruti, come diceva Dante.
Ecco, queste semplici riflessioni su uno dei tanti (e complessi) livelli di lettura del suo romanzo più noto vogliono essere il mio personale e sommesso omaggio all'opera intellettuale e alla fantasia narrativa di un grande scrittore ed infaticabile organizzatore culturale, che ha saputo applicare anche alla cultura di massa di oggi gli strumenti di decifrazione propri della semiotica e dello strutturalismo, offrendo spunti di analisi sorprendenti, e che, tra le altre cose, anche a costo di sfidare la communis opinio circolante in certi ambienti, non ha mai fatto mistero di considerare l’eredità della cultura classica greco-latina come patrimonio fondamentale e prezioso della nostra identità, da trasmettere con gelosa cura alle generazioni future.

Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2016)