domenica 21 febbraio 2016

Il rito, il riso, la rosa: Jorge e Guglielmo.


Molti decenni or sono, tra gli studiosi di letteratura divampò una polemica riguardo al rapporto tra letteratura e società: mentre i critici di ispirazione marxista sostenevano che la letteratura, e, più in generale, tutta la cultura fossero delle sovrastrutture ideologiche tali da riflettere i rapporti sociali presenti all’interno di un determinato momento storico, i critici di ispirazione neoidealista rifiutavano questa visione e sostenevano che, al contrario, i fenomeni artistici non fossero affatto condizionati dai mutamenti sociali, al punto che essi non consideravano la possibilità di comporre una storia della letteratura o dell’arte che studiasse lo stretto rapporto tra cultura e società, ammettendo, al massimo, che si potesse scrivere una ‘storia della cultura’ in sé e per sé. 
In realtà, appare difficile negare che l’evoluzione della società abbia condizionato l’evoluzione della cultura, se non altro perché ne ha condizionato le modalità di fruizione. Un tempo, la cultura circolava attraverso l’ambiente ristretto delle corti dei Principi o dei Sovrani, che, da buoni mecenati interessati, ospitavano all’interno delle loro corti intellettuali di varia provenienza (e di vario valore), i quali, in cambio della possibilità di comporre e di esprimere la loro arte, non rinunciavano ad omaggiare il principe che generosamente li ospitava: Virgilio, Petrarca, Ariosto, per citarne alcuni, furono poeti cortigiani. Dopo il passaggio dalla società aristocratica a quella borghese e la nascita dell’industria editoriale, la letteratura cortigiana si è andata esaurendo, così che gli scrittori hanno potuto, in modo relativamente autonomo, iniziare a comporre le loro opere per un pubblico più ampio e articolato. Nel dopoguerra, con l’avvento della società industriale di massa, anche il libro è divenuto un prodotto esso stesso di massa, soggetto alle mode e al marketing pubblicitario allo stesso modo di altri beni di consumo, come le automobili e le lavatrici.
Al di là dell’evoluzione storica, il vero problema è costituito, però, dalla funzione sociale che si è attribuita alla cultura, con particolare riferimento alla letteratura. In tal caso, al di là del variare dei rapporti sociali ed economici, al di là del nascere e morire delle correnti letterarie, al di là del mutare dei gusti del pubblico, potremmo dire che le posizioni prevalenti sono state essenzialmente due: da una parte vi sono stati coloro che hanno ritenuto la letteratura e, più in generale, la cultura come un fattore di progresso sociale, motivo per cui essi si sono battuti per una sua diffusione progressivamente (avverbio non casuale) sempre più ampia, in modo da consentire a strati sempre maggiori della popolazione di crescere nel sapere e, armati di esso, cercare e trovare una collocazione adeguata nel mondo; dall’altra parte della barricata si sono collocati coloro che hanno sempre considerato la letteratura e, più in generale, la cultura come uno strumento di potere e di dominio sulle masse, ragion per cui si sono battuti (con mezzi leciti e non), perché la sua diffusione non andasse al di là di una ristretta elite sociale, che, per mezzo di questo sapere gelosamente conservato, potesse mantenere la propria posizione di dominio sul resto della società.
E qui mi sia consentito offrire una riflessione che è anche un omaggio ad compianto un grande intellettuale, Umberto Eco, che nel suo romanzo più famoso, Il nome della rosa, caleidoscopico capolavoro letterario nel quale coesistono insieme più generi letterari e molteplici livelli di significato, affronta, tra gli altri temi, con grande efficacia narrativa proprio questo argomento. Nella parte conclusiva del romanzo, il momento di spannung (ossia di massima tensione narrativa) è dato proprio dal memorabile ‘duello’ intellettuale tra Guglielmo di Baskerville e Jorge. Guglielmo, dopo aver indagato sui misteriosi delitti avvenuti all’interno dell’abbazia, interpretando i segni lasciati dall’assassino, è arrivato alla conclusione che sia stato Jorge ad uccidere i vari frati, per impedire loro di accostasi alla lettura del II libro dell’Arte Poetica di Aristotele, quello dedicato alla commedia; dal canto suo, Jorge non solo non nega di essere lui l’autore di tali nefandi crimini, ma quasi si vanta di aver compiuto una missione benemerita, perché non può tollerare che il maestro Aristotele, ammiratissimo nel Medioevo, col suo testo abbia fornito ai lettori gli strumenti intellettuali per ridere di tutto, anche della verità.
Appare evidente che, nella scrittura di Eco, i due personaggi rappresentano i campioni di quelle due tendenze che abbiamo sopra descritto: entrambi (e forse anche l’autore) in fondo sono convinti che il sapere sia una irta montagna, sulla cui sommità più alta solo pochi sono in grado di salire. Detto questo, tra i due esiste, tuttavia, una non trascurabile differenza di opinione sulla funzione sociale che il sapere dovrebbe assumere: per Guglielmo, la cultura è strumento di perfezionamento interiore e di progresso sociale, dunque nessuno dovrebbe porre barriere artificiose alla sua piena fruizione da parte di tutti, anche a costo di far circolare teorie o modelli culturali ‘scomodi’ o ‘non ortodossi’ per la mentalità corrente;  Jorge, invece, è il paladino di una cultura ristretta alla classe dominante ed è disposto a tutto, pur di impedire che essa goda di una diffusione più ampia, perché teme che essa possa fornire alla masse gli strumenti cognitivi per mettere in discussione l’autorità, ogni autorità, spirituale e temporale. Per lui, finché le masse resteranno nel vuoto culturale, esse potranno magari imprecare contro i loro padroni, ma non potranno mai sostituirsi ad essi, perché saranno condannate alla sconfitta dalla loro stessa ignoranza.
E nel finale apocalittico del romanzo, descrivendo l’incendio che distrugge l’Edificio, l’autore ci ammonisce anche con una potente metafora sulla rovina che incombe su qualunque società che abbia la presunzione di escludere larghe fette della popolazione dalla fruizione del sapere, della cultura, dell’arte, poiché queste sono splendida espressione di quella scintilla di Luce divina creatrice che l’intelligenza umana possiede dentro di sé, senza della quale, piaccia o no, gli esseri umani sono destinati a vivere come bruti, come diceva Dante.
Ecco, queste semplici riflessioni su uno dei tanti (e complessi) livelli di lettura del suo romanzo più noto vogliono essere il mio personale e sommesso omaggio all'opera intellettuale e alla fantasia narrativa di un grande scrittore ed infaticabile organizzatore culturale, che ha saputo applicare anche alla cultura di massa di oggi gli strumenti di decifrazione propri della semiotica e dello strutturalismo, offrendo spunti di analisi sorprendenti, e che, tra le altre cose, anche a costo di sfidare la communis opinio circolante in certi ambienti, non ha mai fatto mistero di considerare l’eredità della cultura classica greco-latina come patrimonio fondamentale e prezioso della nostra identità, da trasmettere con gelosa cura alle generazioni future.

Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2016)

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