In un precedente post abbiamo
discusso di come nel romanzo Il nome della rosa, le figure di Guglielmo di Baskerville e di Jorge da Burgos
rappresentassero nella narrazione due modelli molto diversi di intendere ed
interpretare la circolazione del sapere. Naturalmente, però, il romanzo di Eco,
per la sua complessità, si presta ad offrire molteplici chiavi di lettura.
Ad un primo livello, esso offre
al lettore gli ingredienti tipici del romanzo giallo: una serie misteriosa di
delitti, avvenuti in un’abbazia medievale, ed un frate investigatore chiamato a
risolverli. Il mistero, alla fine, verrà svelato e il colpevole verrà scoperto,
anche se costui trascinerà nella rovina l’intera abbazia.
Ad un secondo livello, il testo
offre al lettore gli elementi tipici del romanzo storico: la descrizione
meticolosa della vita quotidiana in un’abbazia medievale e i contrasti
esistenti tra l’ordine francescano, che predica la povertà, ed una Chiesa
romana attaccata invece ai lussi e alle ricchezze e pronta a bollare di eresia
chiunque osi contestare il suo potere politico. Non mancheranno i tentativi di
dialogo, ma saranno destinati al fallimento.
Ad un terzo livello, l’opera
offre al lettore la struttura tipica del romanzo di formazione: la figura di un
giovane frate, Adso da Melk, stretto collaboratore di Guglielmo, e del suo
faticoso cammino di crescita nella fede e nella conoscenza. Egli considera
Guglielmo una specie di tutor, ma arriverà, alla fine della sua esistenza, a
conclusioni morali e filosofiche piuttosto divergenti da quelle del maestro.
Ad un quarto livello, il romanzo
offre al lettore più colto le caratteristiche tipiche del romanzo filosofico,
laddove esso discute, più o meno apertamente, del problema della conoscenza e
dei segni che l’uomo adopera per decifrare il mondo. Ecco, tale aspetto
dell’opera, seppur piuttosto ostico, rappresenta forse quello più importante,
nell’ottica dell’autore, che è stato un illustre semiologo.
Quello dei segni si pone come
problema fondamentale sin dall’inizio del racconto, dal momento che Guglielmo
cerca di scoprire le motivazioni e l’autore dei delitti attraverso dei ‘segni’
che egli ritiene siano stati deliberatamente lasciati dall’assassino, quasi
come una specie di ‘firma’. Seguendo il proprio ragionamento, Guglielmo arriva,
sì, a scoprire l’assassino, ossia Jorge, ma dovrà riconoscere che il suo
ragionamento logico non è esatto, in quanto solo alcuni dei ‘segni’ da lui
individuati sono stati lasciati sulla scena dei delitti da Jorge, mentre altri
sono frutto di casualità. Allora, alla fine del racconto, mentre l’Edificio
dell’abbazia viene divorato dall’incendio scatenato da Jorge nel suo delirio,
Guglielmo riflette amaramente su quanto è accaduto e sulla sua incapacità di
interpretare correttamente il senso degli avvenimenti che lo hanno visto
coinvolto.
Ecco, allora, che il dialogo
finale tra lui e Adso riveste la massima importanza, per le sue implicazioni
ideologiche e filosofiche. Guglielmo si duole di non aver compreso bene la scia
degli avvenimenti accaduti nei suoi meccanismi di causa ed effetto ed arriva
alla dolente conclusione di aver ‘letto’ un ordine delle cose, laddove un
ordine, in realtà, non c’è. Dunque egli arriva ad affermare che non esiste un
ordine predefinito nel cosmo, in quanto questo limiterebbe la libera volontà e
onnipotenza di Dio.
Per capire questo concetto,
occorre ricordare che nel Medioevo fu molto vivo tra i teologi il dibattito
sull’onnipotenza divina, che essi distinguevano in potestas ordinata e potestas absoluta. Semplificando molto, potremmo dire che la potestas ordinata
è quella con cui Dio regola il cosmo attraverso le leggi che Egli stesso ha
fissato ab aeterno, mentre la potestas absoluta è una sorta di
‘riserva straordinaria’ di potere, grazie alla quale Dio potrebbe intervenire
nel cosmo, se lo volesse, anche andando al di là delle leggi che Egli stesso ha
creato.
Ora, occorre tener presente che
l’autore, nel delineare la figura di Guglielmo, si è ispirato a quella del
famoso pensatore medievale Guglielmo di Ockham, che nei suoi scritti analizzò
l’argomento in modo originale, collocando la potestas absoluta in una fase precedente la creazione e la potestas
ordinata in quella successiva: ossia, Dio
avrebbe potuto esercitare la sua libera volontà in qualunque modo, creando
mondi anche profondamente diversi dal nostro, mentre con la creazione ha dato
concretamente leggi al cosmo per mezzo della potestas ordinata.
Tornando al Guglielmo del
romanzo, come detto, egli arriva alla conclusione che il cosmo, seppur
potenzialmente strutturabile, non appare mai completamente strutturato, perché
un rigido ordine del cosmo, come detto, limiterebbe l’assoluta liberta e
onnipotenza di Dio: dunque non esiste un ordine nell’universo. A questo punto
Adso, sconvolto, osa arrivare ad una conclusione teologica ancor più ardita:
“Ma come può esistere un
essere necessario totalmente intessuto di possibile? Che differenza c’è allora
tra Dio e il caos primigenio? Affermare l’assoluta onnipotenza di Dio e la sua
assoluta disponibilità rispetto alle sue stesse scelte, non equivale a
dimostrare che Dio non esiste?”
A queste drammatiche domande
Guglielmo non risponde, ma ribatte con un’altra domanda:
“Come potrebbe un
sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua
domanda?”
Insomma, se Dio potesse davvero
tutto e manifestasse la sua potenza in modo assoluto, anche al di là delle
leggi presenti nel cosmo, non avremmo più un ordine nel creato, ma un
guazzabuglio informe di aventi casuali e di possibilità che accadono per il
solo fatto che possono accadere, insomma un Caos, all’interno del quale Dio non
avrebbe più, in realtà, alcuna funzione. Se così fosse, però, anche la scienza
ne uscirebbe con le ossa rotte, in quanto non vi sarebbe nemmeno possibilità di
trasmettere il sapere, dal momento che, nel caos generale, venendo meno qualunque
criterio di verità oggettiva, ogni proposizione potrebbe essere ugualmente vera
o falsa e ogni fenomeno potrebbe essere reale o fittizio. Per tale ragione,
Guglielmo non se la sente di spingersi fino allo scetticismo nichilista cui
approda il suo discepolo, che nelle pagine finali del romanzo, appressandosi il
momento della morte, sembra identificare il Divino con il Nulla.
E’ stato scritto nel corso degli
anni che questo romanzo rappresenterebbe un’apologia del relativismo ateo
moderno e, certamente, questa, potrebbe essere una sensata chiave di lettura. Attenzione, però! Lo
stesso autore ci ha più volte ricordato che un testo narrativo è una macchina
costruita per generare interpretazioni, che possono anche andare al di là delle
intenzioni originarie dell’autore, il quale, non senza ironia, ha spesso
affermato nei suoi scritti che immagini, metafore, segni, sono tutti elementi
importanti, ma non vanno presi troppo sul serio; e non mi meraviglierei se, in qualche angolo del cosmo, il Prof. Eco, leggendo queste righe, pensasse
sogghignando: “Ecco un altro che c’è cascato!”
Ferdinando G. Rotolo (febbraio 2016)